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Kea, la risata contagiosa dei pappagalli neozelandesi

Quando un kea emette un play call, quelli che lo sentono subiscono un "contagio emotivo" e iniziano a giocare. Una nuova scoperta su uno degli uccelli più curiosi del mondo (in tutti i sensi).

Due giovani kea giocano tra loro sulle montagne della Nuova Zelanda. Fotografia di Raoul Schwing

AMBIENTE – Il kea, Nestor notabilis, è l’unico pappagallo di montagna del mondo ed è endemico della Nuova Zelanda, nelle Alpi meridionali. Con il suo piumaggio verde oliva, scarlatto sotto le ali e dietro la nuca, è probabilmente tra le specie di uccelli più facilmente riconoscibili del mondo.

Ma a renderlo noto è stata in particolare la sua indole da “esploratore”: è un uccello curiosissimo e giocoso, come ha confermato un recente studio che dei kea ha studiato… la risata. O meglio il play call, un richiamo che, come hanno scoperto gli scienziati guidati da Raoul Schwing, in questi pappagalli induce un comportamento giocoso. Concedendoci un po’ di antropomorfismo, è come una risata contagiosa, che mette tutti di buon umore. I risultati sono stati pubblicati su Current Biology.

Oggi Schwing è un ricercatore del Messerli Research Institute, in Austria; in passato ha condotto i suoi studi nel kea lab dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna, per poi passare al lavoro sul campo tra le montagne neozelandesi. La cooperazione, la giocosità e la curiosità di questi uccelli l’avevano incuriosito fin da subito, così ha deciso di testare sul campo quale fosse l’effetto dei play call e degli altri richiami già sentiti – e osservati – in cattività.

Insieme ai colleghi ha fatto sentire a un gruppo di kea il richiamo giocoso, un richiamo “normale” e il richiamo di un’altra specie del luogo (la balia bruna neozelandese) per registrarne le reazioni. Così si sono resi conto che il play call induceva negli uccelli una sorta di contagio emotivo positivo: iniziavano a interagire con gli oggetti presenti, a giocare tra loro o a cimentarsi in giocose peripezie aeree di coppia molto più spesso e più a lungo di quanto facessero dopo aver udito gli altri vocalizzi.

Un aspetto interessante è che quando un kea emette il richiamo, i compagni contagiati non necessariamente si uniscono al gioco insieme a lui, ma interagiscono con un altro compagno o con oggetti. Dunque non si tratta di un invito. “Il fatto che almeno alcuni di questi uccelli abbiano iniziato a giocare spontaneamente, quando nessun altro lo stava facendo, ci suggerisce che, un po’ come la risata umana, [il richiamo] abbia avuto un effetto emotivo sugli uccelli che lo sentivano, mettendoli in uno stato giocoso”, spiega Schwing in un comunicato.

Allo stesso tempo il gioco tra kea riguarda tutti, esemplari molto giovani ma anche adulti, maschi e femmine senza distinzioni. Il che è diverso da quanto accade in altre specie, uccelli ma anche mammiferi, dove più spesso sono i cuccioli a giocare tra loro per affinare le abilità di lotta a colpi di giocose zampate e rincorse, mentre per gli adulti il social play fa anche parte di un repertorio di corteggiamento. Il gioco sociale tra animali maturi di sesso opposto, scrivono gli autori, è raro.

Tra gli altri richiami della specie conosciamo lo screech call (il richiamo usato nella vita di tutti i giorni) e il whistle, una sorta di fischio più raro da sentire e riservato a specifiche interazioni sociali. La scoperta fa anche del kea il primo non-mammifero a subire il contagio emotivo con un richiamo, dicono gli scienziati, un effetto che finora era stato documentato su scimpanzé, ratti e su di noi. “Se gli animali possono ridere”, dice Schwing, “non siamo così diversi da loro”.

Ma nonostante questa vicinanza, alla maggior parte degli animali riserviamo un trattamento poco lusinghiero. In base alla Lista Rossa IUCN (l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) i kea sono una specie vulnerabile. N. notabilis è diventato specie protetta solo negli anni Settanta del secolo scorso ma, prima di allora, almeno 150 000 sono stati sterminati dietro compenso perché considerati una minaccia per il bestiame.

Ancora oggi il rapporto tra neozelandesi e kea è di amore e odio, proprio a causa della loro natura giocosa – che sfocia nel distruttivo, ai danni di automobili o altre proprietà – e del loro appetito, curioso quanto onnivoro. Nel video a seguire potete godervi il racconto di David Attenborough:

In base alle stime, in natura ne sopravvivono tra i mille e i 5000 esemplari, poco più della metà adulti, che vivono tra i bacini alpini e le foreste d’alta quota. Ancora oggi, nonostante sia illegale, i kea vengono uccisi con armi da fuoco o avvelenati, risentono della deforestazione e della competizione per il cibo con il bestiame allevato, mentre specie invasive come l’ermellino e il gatto (che la Nuova Zelanda si è impegnata formalmente a gestire nei prossimi decenni) si nutrono spesso e volentieri delle loro uova.

Come spesso accade per specie che entrano in contatto con noi, la dieta dei kea è cambiata e ha incluso avanzi di cibo e bevande lasciati dai turisti ma anche rifiuti veri e propri. Un’abitudine che, combinata alla loro indole da esploratori, li ha esposti a tossine, inquinamento da piombo e molto altro.

I kea sono anche una delle specie più studiate in ambito cognitivo, dove non è più cosa rara vederli contrapposti ai famosi corvi della Nuova Caledonia nella risoluzione di compiti legati all’utilizzo di strumenti, al problem solving e alla capacità di innovare. Dove brillano proprio per la loro tendenza a sperimentare in rapida successione una serie di tecniche sofisticate, esplorando, instancabili e curiosi.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Gli animali sono curiosi?

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".