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Le ‘intelligenze urbane’ passano per i Big Data

I centri urbani hanno rappresentato nel corso dei secoli, soprattutto in Occidente, il fulcro dello sviluppo culturale ed economico delle società.

Secondo Geoffrey West tutti i fattori che caratterizzano una città e influiscono sulla sua vita ed evoluzione, come la criminalità, la crescita, la mobilità, possono essere spiegate e interpretate da un modello matematico a partire da un parametro che li condiziona tutti, la popolazione. Crediti immagine: Pixabay

SPECIALE MARZO – La spinta all’innovazione fornita dalle città è cresciuta esponenzialmente in particolare negli ultimi 200 anni, con la nascita dell’industria, dei trasporti e delle nuove tecnologie comunicazione e, secondo le previsioni, entro la fine di questo secolo il ruolo della città sarà predominante per la vita del Pianeta.
Se da un lato le città continuano a essere la culla e il motore di molte forme d’innovazione, c’è tuttavia un costo da pagare: i centri urbani sono anche l’origine e i maggiori responsabili di povertà, scarse condizioni igienico-sanitarie e quindi diffusione di malattie, impatto ambientale, insicurezza, sovrappopolamento, difficile gestione dei trasporti e alto tasso di mortalità. Si tratta di deterrenti allo sviluppo senza soluzione? In realtà è proprio nella complessità di questi fenomeni che si possono rintracciare gli strumenti per far fronte a queste sfide, iniziando a ripensare – prima ancora che riprogettare – i centri urbani come smart cities, sfruttando l’enorme mole di dati che le stesse città producono, per interpretare, prevedere e gestire l’evoluzione dei fenomeni metropolitani, come la mobilità e la sicurezza stradale.

Cittadini e dati per una ‘scienza delle città’

Quando si parla di città e del loro futuro, si fa ormai inevitabilmente riferimento all’idea di smart cities. Cosa devono fare esattamente le città per diventare intelligenti? Per quanto questo concetto sia suggestivo ed efficace nell’evocare possibili scenari futuri, per capire cosa intendono gli urbanisti per città intelligenti, è forse più utile semplificare e limitare il campo alle tecnologie disponibili, o che lo saranno a breve, utili per migliorare i servizi del cittadino, unite alla capacità di interpretare le necessità di una comunità. Si tratta, in sostanza, di definire una vera e propria scienza delle città.

Secondo Geoffrey West, fisico teorico del Santa Fe Institute, tutti i fattori che caratterizzano una città e influiscono sulla sua vita ed evoluzione, come la ricchezza, il benessere, la criminalità, la crescita, la mobilità, possono essere spiegate e interpretate da un modello matematico a partire da un parametro che li condiziona tutti, la popolazione.

Così come per molti fenomeni biologici, sono le reti, le interazioni tra esseri viventi  a plasmare le città e il modo in cui queste si evolvono. Ogni giorno i singoli cittadini compiono scelte per utilizzare un mezzo di trasporto, per comunicare, per scegliere un luogo d’incontro, per usufruire di spazi e servizi pubblici per percorrere una strada piuttosto che un’altra. Tutte queste azioni contribuiscono a tessere l’identità di una città e contemporaneamente a produrre una mole enorme d’informazioni monitorabili grazie a strumenti con diversa complessità tecnologica. La gestione  di informazioni di questa portata, ovvero di Big Data – così come ormai da diversi anni ufficialmente definiti dal Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary – fa parte del nuovo paradigma individuato da studiosi dei centri urbani come West, uno strumento indispensabile per raggiungere l’obiettivo smart cities. Il connubio tecnologia-Big Data come base delle intelligenze urbane del futuro era già abbastanza chiaro dalla fine degli anni ’60 a ben vedere. Per farne uso le amministrazioni hanno tuttavia bisogno di un aiuto esterno, che può arrivare per esempio da compagnie private.

Le strade dei Big Data  

Secondo uno studio pubblicato sull’International Journal of Information Managment, per essere utili alla progettazione di smart cities, i Big Data devono certamente essere gestiti con strumenti e metodi adatti – e possibilmente familiari alle tecnologie proprie della Internet of Things – ma contemporanemente dovrebbero facilitare la collaborazione tra i soggetti coinvolti, essere utili in più contesti, favorire occasioni di crescita economica. Dove c’è collaborazione e contributo dall’alto, le cose diventano naturalmente più facili. La città di Helsinki, per esempio, uno dei tre casi studio citati insieme a Copenaghen e Stoccolma, in questo senso ha trovato la strada già spianata da programma pubblico di open data. Aprire al pubblico dati solitamente gestiti dalle istituzioni è una scelta il più delle volte di successo, lo dimostrano anche diverse esperienze italiane.

In alcuni casi tuttavia non c’è buona volontà politica che tenga, perchè diventa materialmente impossibile per le amministrazioni fornire open data, come negli esempi virtuosi delle città citate nello studio, dove la raccolta e gestione di Big Data ha avuto a che fare soprattutto con le reti e le relazioni tra individui: energia, acqua, rifiuti e, soprattutto, trasporti e strade.
È in questi contesti che le città producono la maggiore quantità di dati, ma ad oggi solo centri di ricerca ad alto contenuto tecnologico o compagnie come Google, IBM hanno i mezzi e le competenze per gestirli e un intervento in questa direzione diventa intanto sempre più urgente.

Secondo il Dipartimenti dei Trasporti USA, solo negli Stati Uniti nel 2015 le vittime da incidente stradale sono aumentate del 7,2%, un record che si avvicina molto ai numeri di metà anni ’60, quando non esisteva ancora nessuna tecnologia adeguata per il controllo del traffico.

Per provare a ridurre questo trend, i dati satellitari di traffico e i dati d’archivio degli incidenti possono fare la differenza: dal mix di informazioni come la velocità dei veicoli, un eventuale uso di stupefacenti, l’età del guidatore unite alla topografia della rete stradale, statistiche di traffico, difetti nella segnaletica si riesce a prevede con maggiore confidenza dove e se potrà avvenire un incidente stradale.
Su analisi di questo tipo si basano per esempio il progetto safeTREC  condotto dall’Università di Berkley, California, o il programma speciale di analisi dati della IBM , che ha portato a una riduzione stimata del 6% degli incidenti mortali.
Nei record statunitensi, è New York tra le città più sofferenti per incidenti stradali e l’ambizioso programma Vision Zero vuole ridurre a zero qualsiasi tipo di incidente per le strade della metropoli. In questa sfida sono impegnati Microsoft, DataKind e, caso relativamente eccezionale, il Dipartimento dei Trasporti e l’amministrazione comunale con un archivio open data. La difficoltà maggiore sembra essere raggiungere il dettaglio della mobilità pedonale, ma a questo ci penseranno le soluzioni di internet of things messe a punto dal team di DataKind, sensori e telecamere piazzate in punti strategici della città.
Si potrebbe certo porre la questione della privacy, di un uso più discreto dell’internet of things, tuttavia la città inizia a poter riappropriarsi degli stessi dati che produce – mentre a Copenaghen, i ciclisti finora ne hanno tratto qualche vantaggio.

Leggi anche: Il suono delle città e l’evoluzione

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.