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LIBRI – Io, trafficante di virus. Il nuovo libro di Ilaria Capua

La vicenda giudiziaria di Ilaria Capua raccontata per la prima volta dalla protagonista. "Una storia di scienza e di amara giustizia".

Il libro Io, trafficante di virus ricostruisce la vicenda giudiziaria della scienziata Ilaria Capua, rinviata a giudizio e poi prosciolta per vari reati, tra cui quello di procurata epidemia.

CULTURA – Il libro di Ilaria Capua si legge tutto d’un fiato: non è un saggio, né un lungo articolo di un blog dove si mettono in fila tutti i punti di puzzle stile Perry Mason. Il nuovo libro di Ilaria Capua Io, trafficante di virus (Rizzoli) è un romanzo, e anche di quelli avvincenti perché scritto in modo molto fluido, dove i vari “destini”, quello lavorativo, quello personale di donna e madre, e quello di cittadina italiana, si intrecciano in una delle pagine giudiziarie italiane più vergognose della nostra storia recente.

Leggendo il libro viene da pensare a quello che Rossana Rossanda scrisse a proposito di “Cronaca di una morte annunciata” di Gabriel Garcia Marquez: “Questo non è il dramma della fatalità, ma il dramma della responsabilità”. “Anzi – aggiunse lo stesso Marquez, d’accordo con la Rossanda – il dramma della responsabilità collettiva”. In un qualche modo la vicenda di Ilaria Capua – rinviata a giudizio e poi prosciolta perché il fatto non sussiste come presunta responsabile di una serie di crimini, fra cui il reato di procurata epidemia, punibile con l’ergastolo – ricorda la storia immaginata di Santiago Nasar, ucciso da innocente, dopo che per la maggior parte del libro lui per primo non è a conoscenza dei fatti che lo rendono bersaglio dei suoi aguzzini, pur sapendo di essere già stato pubblicamente giudicato.

L’aspetto che forse più di tutti rende il libro un romanzo è che questo è un racconto di una persona, non di una scienziata. La Capua non si risparmia, dipinge se stessa in tre dimensioni e a tinte forti, senza tralasciare i dettagli della propria vita personale, il suo primo matrimonio, il divorzio, il parto, ma soprattutto i pianti, le ansie, le notti insonni, la nostalgia per il conforto del padre che a un certo punto manca. C’è molta più Ilaria come donna che come scienziata in questo libro, sebbene di fatto il filo rosso della narrazione sia la ricostruzione di un percorso professionale di grande successo. L’impressione è che sia l’Ilaria-donna il “motore immobile” per la costruzione di una carriera fuori dal comune, e non viceversa, e per questo è un libro che fa riflettere molto su come la nostra vita sia segnata da un lato dal destino, ma anche dalla forza che abbiamo nell’abbracciare nuove sfide. Rilanciare prima di averne bisogno. “La quadratura del cerchio è così. Essere anche madre, senza che sia un dovere o un destino che esclude tutti gli altri” è una delle tante riflessioni personali che la Capua non risparmia. “Di nuovo di fronte a una sliding door, perché la vita è fatta così: di decisioni ma anche di occasioni, opportunità di avere sempre i radar accesi. Lo vogliamo chiamare destino?”

Per questo forse non è facile immedesimarsi in una storia del genere. Vi è indubbiamente una fiamma che anima il percorso professionale dell’autrice che purtroppo non tutti posseggono, e non tutti quelli che ce l’hanno sanno metterla a frutto. E questo può generare fastidi, invidie, ostilità.

Leggendo ci si fa l’idea – magari erronea – che ci sia ben poco del “destino” nella vicenda di Ilaria Capua. Oltre alla propria intraprendenza ci sono persone, circostanze, interessi. Ma soprattutto al centro della matassa – e questo è il secondo grande filo rosso lungo tutta la vicenda giudiziaria – vi è una scarsissima cultura scientifica da parte di chi si occupa di informazione e da parte di chi è chiamato a deliberare su questioni scientifiche. Nel caso della Capua è lì che inizia la valanga, una valanga che travolgerà la sua vita e quella dei suoi cari. Si parla tanto per esempio di health literacy, di empowerment dei cittadini come diritto e dovere – per rimanere in ambito sanitario, ma la questione è più ampia – ma di fatto vicende come questa mostrano che ancora non ci siamo.

“Se vuoi giudicare qualcuno, se passi nove anni a spiarlo, devi pur imparare di cosa si parla. Sotto la stessa sigla, H7N3, possono nascondersi molti virus completamente diversi: l’H7N3/Pakistan/HP e l’H7N3/Italia/ LP hanno uguale solo una parte del nome. Entrambi sono virus influenzali, ma che nonostante le lettere e i numeri proprio non si assomigliano. È come se i codici fossero due aggettivi: «decappottabile» e «rossa». Ma una decappottabile rossa può essere una Ferrari come una Cinquecento o un Maggiolino Volkswagen. Nel termine «decappottabile rossa» non c’è nessun indizio sulla cilindrata, sull’azienda produttrice, sul numero di porte. Invece no, i miei accusatori non capiscono che due virus sono diversi anche se hanno «nome e cognome» simili, esattamente come le persone. Due Paolo Rossi sono uguali?”

La storia di Ilaria Capua ci mostra che per evitare altre “morti annunciate” è necessario ripartire da qui.

@CristinaDaRold

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.