ESTERI

Come la rivoluzione genomica potrebbe aiutare l’Africa

Investimenti recenti aprono nuove speranze, ma gli esperti discutono su quanto lavoro debba essere fatto prima di ottenere i risultati sperati.

Solo il 3% delle ricerche che studiano le correlazioni tra genotipo e fenotipo riguarda popolazioni africane. Crediti immagine: Public Domain

ESTERI – Una delle parole d’ordine in ambito medico oggi è “medicina personalizzata”. Un approccio terapeutico che tenga conto cioè delle peculiarità genetiche di ogni individuo, o per lo meno di gruppi di individui, in modo da massimizzare l’efficacia di una diagnosi o di una cura, riducendo al minimo i suoi aspetti negativi. Tutto questo grazie a una conoscenza sempre più dettagliata dei nostri profili genetici, individuali e di popolazione. Una medicina personalizzata, che negli ultimi decenni, grazie al crescente bagaglio di conoscenze genetiche, è diventata “medicina di precisione”.

Il punto è che per ovvie ragioni, popolazione che vai, genetica che trovi, e sotto questo aspetto la medicina di precisione oggi sembra essere ancora fortemente terreno di disuguaglianza. Sebbene qualcosa stia iniziando a cambiare, finora la maggior parte degli studi di genomica ha riguardato persone di razza caucasica. Una meta analisi pubblicata su Nature nell’ottobre 2016 dal titolo esaustivo “Genomics is falling on diversity” – la genomica sta fallendo sul fronte della diversità – rivelava che solo il 3% delle ricerche che studiavano le correlazioni fra i tratti genetici e quelli fenotipici, per esempio sulla tolleranza a certi farmaci, erano stati condotti su individui africani. Per fare un paragone, gli studi sui caucasici rappresentavano l’81% del totale.

Ne parla in un lungo articolo apparso i giorni scorsi sempre su Nature Linda Nordling, una giornalista freelance di base a Cape Town, in Sudafrica, che vanta negli ultimi 15 anni collaborazioni con il Guardian, il Times e Nature.

Se da un lato molti Paesi africani ancora oggi soffrono un ritardo nell’accesso ai servizi e nella disponibilità di cure, dall’altro a questi problemi si aggiunge il fatto che in certi casi non è detto che i farmaci a cui anelano gli abitanti più poveri del pianeta siano i migliori per loro.

È il caso per esempio – racconta l’autrice – di efavirenz come terapia di prima linea per l‘HIV in Zimbabwe. Nel 2015, il Paese passa da uno standard di tre farmaci per il trattamento del’HIV a una terapia che prevede una singola pillola, ed è quindi più economica e più semplice da seguire. Il problema è che grossa parte della popolazione dello Zimbabwe possiede una variante genetica che rallenta la capacità di metabolizzare efavirenz, e non solo: in queste persone il farmaco si accumula nel sangue, portando ad allucinazioni, depressione e tendenze suicide. Una particolarità già nota dal 2007 – prosegue l’autrice – quando Collen Masimirembwa, genetista e fondatore del’Istituto africano di Scienze Biomediche e della Tecnologia di Harare aveva mostrato la diffusione di questa variante in circa il 20% della popolazione. A quanto pare lo stesso Masimirembwa aveva cercato di comunicare questa scoperta al suo governo, ma al tempo efavirenz non rappresentava ancora un punto fermo nel programma nazionale per la lotta all’HIV del Paese, e così la scoperta venne sostanzialmente ignorata.

Qualcosa però sembra stia cambiando, se non altro in termini di investimenti crescenti su questo fronte negli ultimi tempi. Secondo quanto riporta Nature, negli ultimi cinque anni le organizzazioni internazionali per il finanziamento della ricerca hanno investito oltre 100 milioni di dollari in progetti per incrementare la ricerca genetica in Africa.

Ma il progetto forse più interessante è la Human Heredity and Health in Africa Initiative (H3Africa), creata nel 2010 dalla organizzazione benefica con base a Londra Wellcome Trust e dal National Institutes of Health statunitense, con l’obiettivo di costruire centri di ricerca genomica in Africa. Un primo investimento ha toccato quota 70 milioni di dollari per gli scienziati africani che hanno potuto collaborare con partner provenienti da Stati Uniti ed Europa. A questo è seguito un secondo investimento del valore di circa 64 milioni di dollari, attualmente in fieri. Oggi, la partecipazione degli stessi scienziati africani è fondamentale, precisa Nordling.

Un primo risultato del consorzio è stato l’aver studiato le ragioni che rendono gli africani più a rischio di sviluppare malattie renali croniche, e in un’età più giovane, rispetto ai bianchi. Dwomoa Adu, nefrologo presso l’Università della Ghana Medical School di Accra, uno dei principali ricercatori nell’ambito del H3Africa Research Network, ha notato per esempio che molti africani mostrano varianti nel gene per l’apolipoproteina L1 (APOL1) che sembrano portare a un aumento del rischio di sviluppare problemi ai reni. Queste varianti – prosegue Adu – si sono probabilmente diffuse in Africa perché conferiscono resistenza alla tripanosomiasi, detta “malattia del sonno”, una malattia parassitaria trasmessa dalla mosca tse-tse. Ma dal momento che l’aspettativa di vita è cresciuta di molto anche nei Paesi africani, l’incidenza della malattia renale risulta notevolmente aumentata. Questo fattore, insieme a una scarsa possibilità di accedere a servizi di dialisi, fa sì che si muoia ancora troppo spesso di malattie renali in giovane età.
Accanto a questo, altri progetti di ricerca di H3Africa riguardano le varietà genetiche nella progressione dell’HIV, nell’insorgenza del diabete di tipo 2 e negli episodi di ictus.

Tuttavia, non tutti sono convinti che queste iniziative si tradurranno davvero in miglioramenti in termini di cure, e alcuni temono che si tratti invece di studiare differenze genetiche che poco incidono sull’efficacia delle terapie in un continente così fragile come l’Africa. L’argomentazione è molto semplice: la medicina di precisione costa ancora moltissimo, e forse – sostengono alcuni – il denaro speso per le ricerche sulla genetica dovrebbe invece essere utilizzato per migliorare l’assistenza sanitaria di base nel continente.

Chi non è convinto della necessità di investire in questa direzione su tutti i fronti allo stesso modo è Reinhard Hiller, direttore del Centro per la Ricerca Proteomica e Genomica, un’organizzazione bioinformatica senza scopo di lucro a Città del Capo. Il suo laboratorio è uno dei pochi in Africa che si occupa di sequenziamento genomico. Hiller da un lato è contento che vi sia un crescente interesse nel campo della genomica africana, ma al tempo stesso ritiene sia necessario distinguere i vari campi di applicazione: secondo lui molti approcci genomici, in particolare per il trattamento del cancro, possono essere applicati agli africani esattamente come vengono usati per gli europei. Una biopsia da tumore al seno di una donna di colore – spiega – può essere sottoposta alla stessa analisi di quella di un’europea, per quanto riguarda i segni rivelatori genetici della sua origine.

Inoltre, non è così scontato che anche una volta in possesso delle conoscenze genetiche sperate, queste si traducano in un cambiamento concreto per i Paesi coinvolti. Che si riesca cioè a fare breccia sui governi, che non sempre sono pronti a cogliere l’importanza di queste scoperte.
In realtà qualche esempio positivo c’è, racconta la giornalista, ma si tratta per il momento di casi sporadici. In Botswana per esempio, che è annoverato fra i cosiddetti Paesi a reddito medio, non certo fra quelli più poveri, efavirenz non viene più utilizzato dal 2016, mentre si è optato per un farmaco più costoso chiamato Dolutegravir, dal momento che il 13% degli abitanti mostra, come lo Zimbabwe, la varietà genetica di cui abbiamo parlato. Nel 2015 invece l’Etiopia ha vietato l’uso della codeina come antidolorifico, poiché un’alta percentuale di persone nel Paese ha evidenziato una variante del gene che li induce a convertire rapidamente il farmaco in morfina, che può causare problemi respiratori o addirittura portare alla morte.

Il dibattito è ancora acceso, ma a quanto pare non possiamo lasciare la questione fuori dalle stanze dove si discute di lotta contro le disuguaglianze di salute. Si tratta infatti di ‘salute pubblica di precisione‘, per usare un’espressione cara all’autrice. Un nuovo approccio alla medicina di precisione che deve essere tenuto in considerazione da parte dei decisori chiamati a deliberare sulla salute sulle popolazioni e delle comunità, prima ancora che sui singoli individui.

@CristinaDaRold

Leggi anche: Il gene riluttante: diamo troppe responsabilità al DNA?

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.