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Gli sciti e la domesticazione del cavallo

Su Science si parla della storia della simbiosi tra uomini e animali e dell'opera di selezione dell'uomo operata negli ultimi 2300 anni.

Applicando i metodi più avanzati di sequenziamento del DNA, gli autori sono riusciti a sequenziare i genomi di 13 stalloni sciti con un’età compresa tra 2.700 e 2.300 anni fa. Crediti immagine: Pixabay

RICERCA – Tra le tante specie animali addomesticate, il cavallo è forse quello che più ha fatto la differenza in termini di fruttuosa alleanza con l’uomo, soprattutto nell’ambito della vita bellica. E c’è un’intera regione geografica che, senza la domesticazione del cavallo, avrebbe avuto certamente una storia molto diversa. Il riferimento va alle ampie steppe eurasiatiche, terre selvagge e difficili per gli esseri umani, habitat naturali dei cavalli.

In una schiera di popolazioni nomadi che hanno abitato nei secoli queste regioni ce n’è una che più di altre ha fatto del cavallo il suo principale mezzo di sussistenza: gli sciti. Secondo il mito classico, questa popolazione indoeuropea discendeva dall’unione tra Eracle ed Echidna, o tra Zeus e il fiume Boristene. Gli storici la considerano generalmente di origine iranica, con un periodo di esistenza collocato generalmente tra il IX secolo a.C. al I secolo a.C.. Le loro scorribande avvenivano in un’area piuttosto ampia, che andava dalla Siberia meridionale e al Kazakistan fino alle attuali Ucraina, Romania e Moldavia.
La loro simbiosi con i cavalli era tale che non solo ne facevano il principale mezzo di trasporto, ma ne consumavano le carni e persino il latte, e credevano che i loro fedeli destrieri li avrebbero accompagnati anche nell’oltretomba. Le tracce più antiche di bardatura e uso della sella si ritrovano proprio nei siti archeologici attribuiti agli sciti.

Non c’è popolazione migliore, dunque, per indagare la storia genetica della domesticazione del cavallo. Su Science è appena stato pubblicato uno studio che racconta nei dettagli i cambiamenti apportati dalla selezione a opera dell’uomo negli ultimi 2300 anni. Il lavoro porta la firma di un team composto da ben 33 ricercatori internazionali guidati da Ludovic Orlando del Natural History Museum of Denmark, e si basa sull’analisi di resti equini eccezionalmente conservati estratti da sepolture reali degli sciti, e provenienti in particolare dal sito di Arzhan, nella Repubblica di Tuva, e da quello di Berel’, in Kazakistan.

Applicando i metodi più avanzati di sequenziamento del DNA, gli autori sono riusciti a sequenziare i genomi di 13 stalloni sciti con un’età compresa tra 2.700 e 2.300 anni fa: due provenivano da Arzhan e 11 da Berel’. Un altro genoma è stato ricostruito analizzando i resti di una giumenta proveniente da un sito ancora più antico, risalente a circa 4.100 anni fa e situato a Chelyabinsk, Russia, appartenente alla più antica cultura Sintashta, capace di inventare il carro a due ruote trainato dai cavalli.

Le analisi hanno evidenziato un’ampia varietà di colorazioni del manto tra i cavalli degli sciti, tali da includere il baio, il sauro, il nero, il crema e il pezzato. Alcune tracce genetiche mostrano che gli sciti avevano iniziato già a selezionare i cavalli anche in base alle loro performance nella corsa e nella resistenza, caratteristiche oggi alla base delle varietà da corsa.

Fatta eccezione per due individui, tutti gli altri non erano relazionati tra loro, dando implicitamente conferma alle testimonianze storiche di Erodoto, il quale narrava che tra gli sciti era in uso la pratica di seppellire insieme agli alti membri della società cavalli donati da altre popolazioni alleate, in pegno di fedeltà. Ma un dato particolarmente interessante riguarda l’assenza d’inincrocio – cioè gli accoppiamenti tra consanguinei – a dimostrazione che gli sciti furono in grado di mantenere le mandrie allo stato brado, senza ricorrere a selezioni ristrette tra un numero limitato di linee pure. È un dato che contrasta con il quadro attuale, dove prevale la pratica di affidarsi a singoli stalloni selezionati per generare centinaia di generazioni.

Pur mantenendo la naturalità dei metodi di allevamento, secondo le analisi compiute, gli sciti hanno contribuito a selezionare ben 121 geni nei cavalli, relativi soprattutto agli arti anteriori, e che raccontano il loro impegno compiuto nella selezione d’individui dotati di arti robusti.

I dati raccolti hanno permesso di ricostruire con maggiore dettaglio la storia completa della domesticazione del cavallo, che ebbe origine circa 5.500 anni fa, per poi subire un drastico collasso demografico e della varietà genetica a partire da 2.300 anni fa. Una crisi della diversità genetica che stride con l’ampia variabilità di cui oggi siamo a testimonianza. “Molti aplotipi del cromosoma Y coesisterono nelle popolazioni di cavalli degli sciti”, ha precisato Cristina Gamba, coautrice dello studio. “I primi tre millenni di domesticazione del cavallo preservarono un’ampia diversità di linee genetiche paterne, per poi svanire negli ultimi 2.000 anni”.
Il quadro che emerge rende dunque onore agli sciti, popolazione tradizionalmente descritta come sanguinaria e violenta, e invece capace di instaurare un rapporto di pacifico rispetto e convivenza con i loro alleati a quattro zampe. Al contrario di quanto si ipotizzava, la domesticazione nelle sue fasi iniziali non ebbe affatto un impatto negativo, e anzi gli sciti e i loro predecessori mantenerono i cavalli nella salute e nell’abbondanza, selezionando caratteristiche vantaggiose e di successo, prima che le razze equine accusarono il colpo, subendo un calo drastico di varietà genetica nei due millenni successivi.

Gli autori sono riusciti anche a elaborare un modello statistico valido universalmente per valutare le tracce d’impatti positivi dovuti alla selezione artificiale nelle diverse specie animali, nelle fasi iniziali della domesticazione. Le analisi effettuate hanno rilevato che le regioni genomiche maggiormente coinvolte nella selezione ad opera dell’uomo sono quelle che presiedono alla formazione delle creste neurali, strutture che prendono forma nel corso dello sviluppo embrionale e che portano alla genesi di varie strutture corporee dell’organismo. Le regioni genomiche connesse alle creste neurali rappresentano dunque il bersaglio principale della selezione artificiale operata su qualsiasi specie animale. “I risultati del nostro studio dimostrano che la cresta neurale è la chiave della domesticazione animale e l’insorgenza di tratti domestici comuni in linee indipendenti di specie animali”, conclude Ludovic Orlando.

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