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La savana e l’origine degli esseri umani

Allontanandosi dalle foreste dove vivevano, i nostri antenati hanno conquistato gli spazi aperti della savana. Ma questo spostamento è stata la chiave dell'evoluzione umana?

Nella Gola di Olduvai, in Tanzania, sono state trovate le famose orme di Laetoli, testimonianza di una antichissima passeggiata dei nostri antenati. Crediti immagine: Fabio Perelli

SPECIALE MAGGIO – C’è una testimonianza lasciata dal nostro passato preistorico che più di altre ci fa commuovere. Quel trio di australopitechi che attraversa un tratto di suolo ricoperto da cenere vulcanica appena caduta, imprimendo le tracce dei piedi. Oggi sono ancora là, al loro posto, a distanza di oltre tre milioni e mezzo di anni. Due individui che avanzano mettendo i piedi nelle impronte del capofila, con un’andatura tranquilla, da passeggiata domenicale.

Le orme di Laetoli si conoscono sin dagli anni Settanta del secolo scorso, epoca delle grandi spedizioni paleoantropologiche nella Gola di Olduvai, in Tanzania. Lo scorso inverno un gruppo di ricercatori italiani e internazionali ha annunciato la scoperta di un’altra pista d’impronte, ravvicinata e appartenente ad altri membri dello stesso gruppo, che si muovevano con loro.

Pur confermando l’attribuzione tassonomica che è sempre stata più in voga tra gli esperti – Australopithecus afarensis – la scoperta rovescia quell’immagine un po’ romantica che ci eravamo fatti, di una famigliola tradizionale che passeggia unita. Gli individui in totale erano cinque, e di questi solo uno era un maschio adulto e le altre erano femmine adulte e piccoli. I nostri antenati più famosi, e per molto tempo anche i più antichi che conoscevamo, erano più verosimilmente poligami, come gli attuali gorilla.

La Savanna hypothesis

Certo è che si tratta solo di una delle tante scoperte che negli ultimi anni ci hanno spinto a rivedere e a ricapitolare l’evoluzione umana degli albori. Quando le prime impronte di Laetoli furono trovate, negli anni Settanta, la paleoantropologia era nell’epoca d’oro delle scoperte dei coniugi Leakey e degli altri pionieri della Gola di Olduvai, nella Rift Valley africana. Mettendo insieme tutti i tasselli raccolti – tra cui spicca anche Lucy, la giovane austropitecina che ci ha lasciato lo scheletro quasi per intero – si fece largo un’ipotesi già proposta ufficialmente negli anni Venti e immaginata ancora prima da Darwin, e che è diventata una chiave di volta nella ricostruzione dell’evoluzione umana: la Savanna hypothesis.

Le due principali specie scoperte in quegli anni – Australopithecus afarensis e Homo habilis – erano già chiaramente bipedi e vivevano in luoghi aridi e in spazi aperti, ambienti diversi da quelli tipici dei nostri più stretti cugini attuali, le scimmie antropomorfe, che vivono in habitat forestali densi e chiusi. I due aspetti – andatura bipede e habitat di savana – andavano a braccetto talmente bene che l’idea che l’inaridimento climatico sia stato la molla dell’evoluzione umana conquistò rapidamente tutti. È diventato un dogma, diffuso in sostanza in qualsiasi pubblicazione divulgativa e scolastica per molti anni.

Secondo la Savanna hypothesis, l’evoluzione degli ominidi è stata in gran parte guidata dallo spostamento dei nostri antenati dalle foreste agli spazi aperti della savana. Crediti immagine: Fabio Perelli

Le orme di Laetoli sono l’istantanea degli antichi passi mossi da antenati bipedi, in un ambiente tra i più aridi che si possa immaginare. I primi ominidi erano figli della foresta, ma dopo aver mosso i primi movimenti sugli alberi, iniziarono a camminare eretti nei grandi spazi della savana. Nei nuovi ambienti, leoni, leopardi e iene erano una minaccia tale da spingerli a trovare un rimedio. Ergendosi oltre i cespugli potevano scorgere i predatori da lontano, e ripararsi in tempo. In più liberavano le mani, scoprendone ben presto l’efficacia come strumenti per creare e lanciare le prime armi artificiali in grado di uccidere prede anche di grandi dimensioni.
Il cervello, con tutti questi presupposti farevoli, poté crescere in volume e numero di connessioni.

La Savanna hypothesis non faceva una grinza, convincendo quasi tutti con la sua logica inoppugnabile. Finché l’Africa non ha iniziato a rivelare anche altri inattesi protagonisti del cammino evolutivo umano.

L’enigma di “Ardi”

Nel 2009, sulle pagine della rivista Science campeggiano il volto e il nome di un attore già comparso sulla scena negli anni Novanta del secolo scorso, ma senza ancora lasciare il segno: Ardipithecus ramidus, un ominide enigmatico di provenienza etiope, vissuto quattro milioni e mezzo di anni fa. Negli undici studi pubblicati sulla rivista vengono svelati dettagli sorprendenti che mettono in dubbio come non mai la Savanna hypothesis.
‘Ardi’, che era più antica di Lucy, era già probabilmente in possesso di un’andatura bipede, ma le sue abitudini erano ancora soprattutto arboricole. Le ricostruzioni lasciano supporre che vivesse in un habitat forestale, arrampicandosi sugli alberi, forse compiendo qualche breve scorribanda a terra.

Ma anche qualora non fosse un vero camminatore, c’è da credere che l’origine del bipedismo sia dovuta a un insieme di fattori più complesso e articolato della semplice transizione da foresta a savana.
È così che negli ultimi decenni la Savanna hypothesis, una delle ipotesi più granitiche sull’evoluzione umana, si è progressivamente sgretolata, sotto i colpi di nuove scoperte che danno un’immagine di una storia evolutiva diversa da quella ipotizzata inizialmente.

L’ipotesi del mosaico

Oggi l’immagine che sembra descrivere meglio il paesaggio adattativo dell’evoluzione umana del Pliocene africano è quella del mosaico. Non più un unico ambiente, la savana, e un’unica condizione climatica, l’aridità. Un mosaico di ambienti, di climi e di paesaggi che modellarono i cambiamenti evolutivi dei nostri antenati.
L’evoluzione, insomma, non ha agito in modo lineare, ma potremmo dire a “macchia di leopardo”. Non è stata guidata da un’unica influenza climatica e ambientale, ma da una serie di oscillazioni irregolari e di spostamenti geografici nel continente africano, attraversando ambienti distinti.

Mentre infatti Ardipithecus ramidus e altri ominidi, come Orrorin tugenensis, erano chiaramente di ambiente di foresta, altri come Sahelanthropus tchadensis sono stati associati a diversi tipi di habitat. Australopithecus anamensis è stato rinvenuto in strati sedimentari associati ad ambienti molto diversi tra loro: savane, praterie, foreste a galleria, boscaglie aride.

Come mostrano le ultime ricerche, la stessa Lucy e i suoi simili di Laetoli condividevano con gli altri membri della specie Australopithecus afarensis uno scheletro appositamente adattato per rispondere con successo alle oscillazioni climatiche e vegetazionali. Lucy ha un bacino e giunture delle ginocchia da essere umano, abbinati a lunghe braccia scimmiesche e piedi flessibili, adatti sia a camminare sia ad arrampicarsi.

Il fattore chiave dell’evoluzione umana delle origini sembra essere stato pertanto la flessibilità verso un ampio mosaico di ambienti, piuttosto che un adattamento a un unico effetto scatenante.
Persino Laetoli, che ci ha regalato un’immagine forte e chiara del bipedismo in epoca antica, forse non era un luogo così arido come si pensava, al tempo delle australopitecine. L’aridità del sito è stata inizialmente dedotta soprattutto dal ritrovamento di antilopi associate ad ambienti secchi. Ma oggi altri dati mettono in dubbio queste prime conclusioni, dando adito all’ipotesi di un habitat più umido e ricoperto di alberi.

Ma se non furono né l’avanzata della savana né la colonizzazione di ambienti aridi a stimolare l’origine del bipedismo, perché gli ominidi iniziarono a camminare eretti sugli arti inferiori? È un enigma che resta in buona parte insoluto, spingendoci a continuare a indagare su ciò che accadde nella culla dell’umanità.

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