ricercaSCOPERTE

La fotosintesi? Forse si farà “in provetta”

La sfida di realizzare sistemi artificiali per riprodurre in laboratorio la fotosintesi riguarda l'efficienza di conversione.

Nelle piante il sistema che regola la fotosintesi è regolato in modo molto fine, e permette altissimi livelli di efficienza di conversione energetica. Crediti immagine: Wilerson S Andrade, Flickr

SCOPERTE – La fotosintesi è una tra le reazioni biochimiche (se non la reazione) cruciali per lo sviluppo della vita sulla Terra: grazie a questo processo finemente regolato, infatti, le piante riescono a convertire l’energia solare in energia chimica, trasformando acqua e anidride carbonica in zucchero (glucosio) e ossigeno. In un recente studio, pubblicato sul Journal of American Chemical Society, un gruppo di ricerca statunitense afferma di aver ricreato questa reazione in laboratorio.

La cosa non è affatto banale: la fotosintesi, infatti, è mediata nelle piante da due complessi proteici estese (il fotosistema I e II), che attraverso reazioni consecutive innescate dalla luce solare riescono a scomporre le molecole d’acqua per produrre zuccheri e ossigeno. Il sistema è altamente specializzato, e riesce a raggiungere altissimi livelli di efficienza di conversione (risultato difficile da riprodurre in un modello artificiale).

Il gruppo di ricerca della Virginia Tech University ha quindi sviluppato due fotocatalizzatori (materiali che favoriscono e accelerano reazioni chimiche tramite l’assorbimento della luce) in grado di raccogliere in un’unica “supermolecola” tutti i componenti necessari per l’assorbimento della luce, la separazione delle cariche e la catalisi: in entrambi i modelli di fotocatalisi erano quindi presenti ioni del rutenio (Ru) e del rodio (Rh), uniti tra loro da una molecola “ponte” necessaria al trasferimento degli elettroni. La differenza tra i due sistemi? Il numero di ioni di rutenio: sei in uno, tre nell’altro. Questa differenza apparentemente insignificante in realtà si traduce in un’aumentata produzione di idrogeno nel fotocatalizzatore “a sei”, che rimane anche più stabile nel tempo se confrontato con quello “a tre”.

La spiegazione sembra risiedere in una delle condizioni necessarie alla produzione di idrogeno, ossia il fatto di aver bisogno di due elettroni per ogni molecola di idrogeno: il sistema creato in laboratorio deve essere in grado di “trattenere” il primo elettrone abbastanza a lungo da intercettarne anche un secondo. In quest’ottica avere sei ioni che assorbono e trattengono la luce in maniera indipendente, invece che tre, migliora l’efficienza del sistema: “in questo modo aumentiamo la probabilità di utilizzare ogni elettrone nel modo più produttivo possibile, e le molecole riescono così a funzionare anche a condizioni di scarsa illuminazione”, spiega Gerald Manbenck, coordinatore dello studio.

Queste proprietà sono state analizzate attraverso una tecnica elettrochimica denominata voltammetria ciclica, che mostra i livelli di energia di una molecola: gli scienziati hanno così scoperto che il catalizzatore “a sei” era leggermente più povero di elettroni rispetto alla sua controparte “a tre”, e quindi risultava più recettivo e più favorevole per il trasferimento di cariche, processo cruciale per la fotosintesi.

Grazie a questi innovativi studi e alla creazione di catalizzatori così efficienti la riproducibilità della fotosintesi clorofilliana in laboratorio sembra quindi essere sempre meno fantascientica, aprendo le porte a diverse applicazioni potenzialmente utili per l’ambiente, e per gli esseri umani.
Fermo restando, tuttavia, che gli sforzi oggi debbano essere rivolti verso la tutela e la salvaguardia di quei sistemi perfetti ed efficienti che esistono da milioni di anni: le piante.

Leggi anche: Il trasporto e l’attività, a livello molecolare

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Marcello Turconi
Neuroscienziato votato alla divulgazione, strizzo l'occhio alla narrazione digitale di scienza e medicina.