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La foresta pluviale, un bioma che rischia di scomparire a causa del cambiamento climatico

Per evitare ulteriori perdite di foreste tropicali, sarà necessario tenere sotto controllo il riscaldamento climatico. Un aumento di 3 gradi e mezzo entro fine secolo potrebbe infatti portare alla scomparsa della foresta amazzonica.

Le foreste che hanno una maggiore varietà di specie vegetali sono meno vulnerabili alla distruzione. Crediti immagine: Neil Palmer (CIAT)

Le foreste pluviali costituiscono il più importante condizionatore d’aria del mondo, capace di trasformare metà dell’energia solare totale che le raggiunge in un’enorme evaporazione di acqua attraverso le foglie e altre superfici, che nella sola Amazzonia è pari a 8000 miliardi di tonnellate di vapore acqueo. La riduzione progressiva delle precipitazioni e l’impatto antropico stanno esponendo la foresta pluviale a quello che viene definito come rischio di progressiva seccagione, dove la perdita di foreste aumenta in conseguenza di ridotte precipitazioni e attività umane.

Poter prevedere quali regioni siano più suscettibili a questa perdita è essenziale per prevenire la scomparsa di ulteriore patrimonio forestale: due recenti progetti europei, Robin (Role Of Biodiversity In climate change mitigatioN) e Amazalert, hanno indagato l’importante ruolo della biodiversità per la mitigazione del cambiamento climatico: nel commentare la propria ricerca su Nature Communication, Delphine Clara Zemp, dell’Istituto di Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico, in Germania, aveva chiarito che la presenza di molte specie arboree è un buon indicatore delle probabilità di sopravvivenza per le regioni forestali. I ricercatori hanno analizzato la rete dei flussi d’acqua e hanno scoperto che più è diversificata la vegetazione, tanto meno vulnerabile sembra essere alla distruzione. Ogni specie vegetale, infatti, ha un modo diverso di reagire allo stress e un numero maggiore di specie arboree aumenta la resilienza dell’ecosistema.

“Come IPCC abbiamo sviluppato scenari che prevedono diverse intensità di riscaldamento globale a fine secolo”, spiega Riccardo Valentini, ricercatore dell’Università della Tuscia e componente del comitato scientifico dell’IPCC e di WWF Italia. “In particolare, oggi possiamo affermare che con un aumento di 3,5 °C entro fine secolo, molto probabilmente la foresta amazzonica potrebbe scomparire come bioma. L’accordo di Parigi prevede un contenimento auspicabile del riscaldamento globale entro il grado e mezzo/due gradi centigradi. Se oggi però ci si sofferma a osservare gli impegni presi finora  dai vari Paesi e la traiettoria che questi dati permettono di tracciare per una stima del riscaldamento entro fine secolo, ci accorgiamo che il riscaldamento atteso sarà di tre gradi centigradi circa, un valore molto vicino ai tre gradi e mezzo di aumento, che secondo le nostre stime determineranno la scomparsa dell’Amazzonia”.

Esistono molti studi che dimostrano l’alterazione del ciclo idrologico nel bioma amazzonico, determinata da due motivi fondamentali: gli alterati cicli del Niño e della Niña e un effetto conseguente alla deforestazione tropicale. “La deforestazione tropicale altera il ciclo idrologico”, spiega Valentini, “perché l’area amazzonica è continentale e viene quindi a mancare l’evaporazione necessaria a garantire un adeguato livello di precipitazioni. Si tratta di un ciclo chiuso, perché manca l’influenza degli oceani: se manca la capacità di rielaborare l’acqua verso l’atmosfera, sotto forma di vapore acqueo, viene a impoverirsi la quantità delle piogge. Questo è particolarmente evidente in quelle zone di confine tra foresta pluviale e cerrado”.

Questi fattori contribuiscono ad aumentare il rischio di incendi, responsabili di ulteriori emissioni di gas serra. “Quando c’è stato il grande incendio delle foreste torbiera in Indonesia, grandi quantità di carbonio si sono ossidate e sono finite in atmosfera. Questo ci riconduce al fondamentale ruolo che le foreste tropicali rivestono nel ciclo del carbonio: il 40% delle emissioni di gas serra sono infatti riassorbite dalle foreste”, continua Valentini.

Per quanto riguarda il futuro ci sono diverse incognite: “quando vengono effettuate proiezioni sulle emissioni di gas serra legate all’attività umana, spesso non consideriamo feedback di tipo positivo, che possono amplificare il fenomeno. Un esempio calzante, in questo senso, è il permafrost, il cui scioglimento e le conseguenti emissioni di metano non vengono adeguatamente messe in conto. Si tratta di processi non lineari: in un sistema complesso, ci sono molte variabili che interagiscono tra loro. Questi sistemi, se perturbati, tendono a tornare allo stato iniziale, perché ci sono effetti di retroazione. Gli elementi amplificanti potrebbero però portare a soglie di non ritorno, quando i feedback sono positivi, e il sistema potrebbe non riuscire a tornare allo stato iniziale”, conclude Valentini.

Leggi anche: Deforestazione locale, piaga globale

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Sara Moraca
Dopo una prima laurea in comunicazione e una seconda in biologia, ho frequentato il Master in Comunicazione della Scienza della Sissa di Trieste. Da oltre dieci anni mi occupo di scrittura: prima come autore per Treccani e De Agostini, ora come giornalista per testate come Wired, National Geographic, Oggi Scienza, La Stampa.