COSTUME E SOCIETÀ

Il debunking a toni forti non funziona. Che fare?

Non raggiunge chi dovrebbe e i toni troppo forti peggiorano la situazione. Ecco quello che emerge da uno studio anche italiano pubblicato su PLOS One (con qualche consiglio su come rimediare)

A quanto pare il debunking non funziona come antidoto contro le fake news perché finisce per raggiungere solamente chi già è d’accordo con le posizioni espresse. Crediti immagine: Pixabay

COSTUME E SOCIETÀ – Talvolta è sufficiente dare un nome a qualche cosa perché questa diventi un ente tangibile, magari addirittura una moda, qualcosa di irrinunciabile, ancora prima di aver valutato attentamente tutte le sue caratteristiche e averne stabilito l’efficacia. Con il risultato che si finisce per usare (e spesso osannare) questo qualche cosa, concetto o strumento che sia, in maniera completamente acritica. È il caso del famoso “debunking”, quel “modo” di fare giornalismo che si costituisce solitamente come attacco frontale ai complottisti per contrastare il propagarsi di fake news. Avere a disposizione parole utili è poi importantissimo per creare hashtag vincenti per intensificare la rete di diffusione sui social media.

Oggi un giornalista che decide di misurarsi con i temi caldi del dibattito quotidiano – che si tratti di vaccini, medicine alternative, ufo, scie chimiche o complotti vari – si sente in dovere di scrivere un articolo di debunking, di fact-checking, per mostrare a chi proprio non vuole credere alla limpidezza dei dati di fatto che quello che hanno davanti è davvero una bufala, smontando pezzo per pezzo i tasselli che compongono la torre in modo che crolli sotto gli occhi degli astanti. In realtà raccontato così sembra qualcosa che il giornalista ha sempre fatto. La differenza è che il debunker di oggi unitamente a un modo didascalico e analitico di argomentare, finisce spesso per sentire l’esigenza di usare toni molto aspri e militareschi, per elevare la propria voce al di sopra delle tante già circolanti.

Il punto è che se analizziamo il debunking con il suo stesso metodo, cioè con il metodo scientifico sperimentale, è la torre del debunking a non essere molto salda: a quanto pare esso non funziona come antidoto contro le fake news perché finisce per raggiungere solamente chi già è d’accordo con le posizioni espresse. E il motivo di fondo sono proprio questi toni troppo bruschi, che finiscono per lasciare terra bruciata intorno a sé.

Lo racconta uno studio pubblicato su PLOS One da un team internazionale guidato da ricercatori italiani, che ha analizzato l’attività su Facebook di 54 milioni di utenti per un periodo di cinque anni. I ricercatori hanno analizzato i post, i ‘like’ e i commenti pubblicati su 83 pagine Facebook americane di carattere scientifico, 330 pagine ‘complottiste’ e 66 pagine dedicate al debunking, per un totale di oltre 50mila post.

“La prima cosa che abbiamo osservato è che non c’è alcun incontro fra queste due comunità, quella che potremmo chiamare scientifica e quella dei complottisti” spiega Fabiana Zollo, prima autrice dell’articolo e ricercatrice post-doc all’Università Ca’ Foscari Venezia. “Si tratta di due bolle separate che interagiscono di rado. In altre parole chi si informa su fonti non scientifiche raramente capiterà su pagine Facebook appartenenti alla sfera delle fonti scientifiche dove si fa debunking, e quando accade lo farà solo con commenti negativi non certo con l’animo aperto a un confronto intorno alla questione oggetto di analisi.” Insomma, il primo grosso problema del debunking è che il contesto in cui si muove è profondamente polarizzato e inondato dal noto confirmation bias: chi è già su posizioni scientifiche finirà per apprezzare i tentativi di debunking, che però non raggiungono chi ne trarrebbe maggiormente beneficio.

Il problema è che sebbene lo abbiamo chiamato con un termine proprio – appunto “debunking” – quello di andare a smontare le falsità raccontando la verità dei fatti è il compito irrinunciabile del giornalista. Dire insomma che il debunking come lo facciamo oggi non funziona è solo una parte della storia. A noi serve capire perché non funziona e farlo meglio. “Il primo passo per un debunking che funziona è abbassare i toni, per appianare appunto questa polarizzazione così evidente fra chi si informa solamente da fonti scientifiche e chi tramite fonti non scientifiche” spiega Zollo.

Qui però ci scontriamo con il secondo problema, al centro del dibattito fra i comunicatori della scienza – se quest’ultima sia o meno “democratica”, ovvero se le posizioni su un dato argomento abbiano tutte lo stesso peso, sia quelle supportate dai dati e da anni di studio e ricerca che quelle non corrette, frutto di mere opinioni. Si finisce per confondere il fatto di non ritenere la scienza democratica con la giustificazione a usare toni militareschi per convincere chi irrazionalmente proprio non vuol sentir ragioni. “Il nostro studio lo mostra chiaramente: stiamo sbagliando il modo in cui raccontiamo le cose. Urlare, umiliare, “sgridare” non serve, anzi, sortisce l’effetto opposto: allontanano un possibile uditore, contribuendo a rinforzare il suo sistema di credenze” continua Zollo.

Un secondo aspetto per un debunking efficace, oltre a usare toni meno militaristici, è concentrarci sulla possibilità di individuare prima che scoppi la bolla gli argomenti prossimi a essere oggetto di bufala. Insomma, giocare d’anticipo, in modo di intercettare da subito più persone possibile ed evitare che si formi la polarizzazione. “Si tratta di una strada sicuramente complessa – continua l’autrice – non semplice e immediata come invece iniziare ad abbassare i toni smettendo di essere cattedratici e arrabbiati noi per primi con chi non ci vuole ascoltare. In questo senso stiamo lavorando per creare un centro di ricerca dedicato alla problematica dell’effetto che hanno i social sulla nostra società, dove si analizzeranno degli indici specifici per valutare l’impatto delle testate giornalistiche e del fabbisogno informativo degli utenti.”

Si tratta di una ricerca davvero degna di nota, su un argomento – i social media – che si studiano ancora troppo poco. Nonostante tutto però non si può dire che qualcosa già non si sapesse, data la scarsità di scambio costruttivo che si riscontra in molte delle pagine Facebook dei comunicatori più in voga. È per lo meno da chiedersi, se vogliamo farci un esame di coscienza, se quando facciamo un debunking così aggressivo abbiamo come obiettivo finale davvero raggiungere chi sta nell’altra bolla o piuttosto mostrare a chi sta nella nostra che anche noi nel nostro piccolo sappiamo il fatto nostro e sappiamo fare debunking.

@CristinaDaRold

Leggi anche: Le dinamiche emotive tra scienza e complotto su Facebook

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.