GRAVIDANZA E DINTORNI

Un piccolo ormone contro la preeclampsia

Nei topi, la proteina ELA sembra proteggere le femmine incinte dal rischio di sviluppare i sintomi della preeclampsia. Potrebbe aprire a nuovi approcci terapeutici contro questa grave malattia.

La preeclampsia è una malattia tipica della gravidanza, subdola e grave. I risultati ottenuti nei topi sulla molecola ELA potrebbero aprire a nuovi sviluppi terapeutici. Crediti immagine: Pilirodriguez

GRAVIDANZA E DINTORNI – La preeclampsia è una malattia grave e per molti versi ancora sconosciuta. Colpisce solo le donne in gravidanza, è subdola – in genere i sintomi tipici, cioè ipertensione e perdita eccessiva di proteine nelle urine, non si avvertono – ed è potenzialmente pericolosa per mamma e feto, che rischiano anche la morte. Le cause precise non sono ancora note, né abbiamo terapie: se la preeclampsia colpisce – accade nel 5-8% delle gravidanze – l’unico modo per fermarla è far nascere il bambino, sperando che non sia troppo presto. Ecco perché destano interesse i risultati di uno studio pubblicato su Science, risultati che fanno luce sul possibile ruolo di una piccola proteina nella prevenzione e nella cura della preeclampsia.

Lo studio, in realtà, riguarda i topi, dunque siamo ancora ben lontani da possibili applicazioni nei nostri ospedali, ma una nuova strada della ricerca è ormai aperta, e non è poco.

Al centro del lavoro, condotto in un laboratorio dell’Institute of Medical Biology di Singapore, c’è ELA, una piccola proteina scoperta solo pochi anni fa. Di lei, si sa, per esempio, che è coinvolta nella migrazione delle cellule durante lo sviluppo embrionale del pesce zebra e che è presente anche nei mammiferi (umani compresi), con ruoli probabilmente legati allo sviluppo embrionale, soprattutto di cuore, vasi sanguigni e reni. Per cercare di saperne di più, il gruppo di ricerca del biologo Bruno Reversade ha deciso di concentrarsi sui topi, generando animali privi del gene che codifica proprio per questa proteina.

È subito balzato agli occhi dei ricercatori che sia gli embrioni dei topolini senza ELA sia le loro placente avevano spesso anomalie vascolari. Un’osservazione che ha fatto subito pensare alla preeclampsia, visto che questa condizione si associa a un danno generalizzato alle pareti dei vasi sanguigni della placenta. Reversade e colleghi sono dunque andati a vedere che cosa accadeva alle loro topoline senza ELA, una volta che rimanevano incinte. Scoprendo che, rispetto a topoline incinte ma con ELA, oppure prive della proteina ma non gravide, tendevano ad avere livelli di pressione e di proteine nelle urine più elevati. Proprio i sintomi caratteristici della preeclampsia. Non solo: queste femmine tendevano a partorire cuccioli più piccoli, di basso peso, il che di nuovo fa pensare a quanto accade nella donne in gravidanza, per le quali la preeclampsia può accompagnarsi a una restrizione nella crescita fetale.

Interessante, certo. Ma lo è anche di più il fatto che, somministrando proteina ELA alle topoline incinte che ne erano prive, queste avevano meno probabilità di sviluppare i sintomi della preeclampsia e di partorire topolini di basso peso. E se è vero che i topi non sono esseri umani, e dunque è presto per cantar vittoria, è altrettanto vero che questi risultati sembrano offrire su un piatto d’argento sia un nuovo modello animale per lo studio della preeclampsia, sia la speranza di una terapia.

Ovviamente, tutto andrà riconfermato e approfondito nella nostra specie, e qualcosa hanno già cominciato a fare Reversade e colleghi, con alcuni esperimenti su linee cellulari di trofoblasti, le cellule della placenta. La loro ipotesi è che, nei mammiferi, la proteina ELA prodotta dalla placenta (ma è prodotta anche da altri organi) abbia il compito di promuovere il corretto sviluppo e funzionamento della placenta stessa durante la gravidanza. Se tutti i presupposti venissero confermati, ELA potrebbe rivelarsi un buon candidato come marcatore per individuare le donne a rischio di sviluppare preeclampsia (magari in combinazione con altri marcatori già usati, come le proteine placentari PIGF e sFLT1) o addirittura come molecola terapeutica per trattare questa condizione, impedendo il peggio.

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance