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Clima che cambia, un’ulteriore minaccia per i lemuri del Madagascar

Vengono cacciati, mangiati e il loro habitat è sempre più ridotto e frammentato. Ma per i lemuri più specializzati incombe un'ulteriore minaccia: stagioni secche sempre più lunghe e meno cibo a disposizione

Un prolemure dal naso largo che addenta il suo pranzo di bambù. Fotografia di Jukka Jernvall

AMBIENTE – Nel 2014 una grossa indagine ha stabilito lo status di conservazione dei lemuri del Madagascar, tracciando un quadro tutt’altro che positivo: delle allora 103 specie note, più del 90% era a rischio di estinzione a causa della distruzione e della frammentazione dell’habitat. La “barca” dei lemuri stava letteralmente colando a picco, considerando che appena una decina di anni prima a essere minacciato era meno del 70% delle specie.

Per la diversità in specie di primati il Madagascar è secondo solo al Brasile e, di lemuri, ne si continuano a scoprire di nuovi. Ma di pari passo crescono le minacce: questi animali straordinari, che non vivono in nessun altro luogo al mondo, vengono cacciati, vengono mangiati e devono stringersi in habitat sempre più striminziti, sacrificati alle attività umane quando non protetti all’interno dei confini dei parchi naturali.

Ma ora diventa possibile quantificare anche la più “recente” delle minacce, ovvero il cambiamento climatico, che renderà sempre più rare le fonti di cibo per le specie più specialiste, la cui dieta ruota intorno a pochissimi cibi diversi. O si concentra su uno in particolare come accade per il prolemure dal naso largo (Prolemur simus), i cui denti – proprio come quelli del panda gigante – sono gli strumenti perfetti per nutrirsi del bambù.

Normalmente lo spuntino preferito di questi lemuri sono i germogli del bambù, più teneri e gustosi, ma con temperature in aumento e stagioni aride prolungate è probabile che sempre più spesso dovranno ripiegare sulle canne. I fusti già cresciuti, legnosi e duri, sono normalmente una seconda scelta e P. simus se ne nutre solo quando scarseggiano opzioni fresche e più ricche di sostanze nutritive.

Gli scienziati hanno documentato la situazione su Current Biology, dove scrivono che questa specie sarà costretta a nutrirsi di canne di bambù per periodi sempre più estesi e, in base alle sue caratteristiche, la conseguenza più probabile sarà che soffrirà la fame.

Patricia Wright della Stony Brook University, tra gli autori, non esita a definire il cambiamento climatico un “killer furtivo” per specie come questa, estremamente specializzate. Lentamente le costringe a rinunciare al loro cibo preferito, spostandosi su alternative meno sostanziose e valide. All’esacerbarsi della situazione, basterebbe davvero poco per spostare l’ago della bilancia da sopravvivenza a estinzione.

I denti super-specializzati di P. simus permettono al lemure di sopravvivere con i soli fusti per alcuni periodi dell’anno; nei 18 mesi trascorsi nel parco nazionale di Ranomafana, Wright e i colleghi hanno scoperto che questa specie trascorre il 95% del tempo a nutrirsi di una sola specie di bambù. La specializzazione portata all’estremo. Ma si tratta quasi sempre di germogli freschi, fatta eccezione per il periodo con clima più secco che va da agosto a novembre.

In passato questo lemure occupava un’area del Madagascar ben più ampia e lo sappiamo grazie ai fossili: la distribuzione, tuttavia, è da sempre legata alle parti dell’isola dove la stagione secca è più breve. Secondo i modelli climatici più recenti, tuttavia, anche nelle zone in cui vivono oggi le stagioni aride saranno in futuro sempre più lunghe e costringeranno P. simus a optare per le canne di bambù. Ma non significa che, terminato il periodo più arido, il cibo tornerà a essere disponibile allo stesso modo: è possibile che anche la crescita dei germogli sarà influenzata dalle fluttuazioni del clima, sottolineano i ricercatori.

Il problema bambù tocca da vicino il prolemure dal naso largo, ma è possibile che si presenti negli stessi termini per altre specie molto specializzate, influenzando la disponibilità del loro cibo principale. Se non studiamo queste specie ora, ricorda Jukka Jernvall dell’Università di Helsinki, co-autrice dello studio, potrebbero estinguersi prima ancora di essere riusciti a capire cosa le minaccia. Che è l’unica possibilità a nostra disposizione per provare a proteggerle.

Infatti l’orologio dell’estinzione ticchetta: in base alle valutazioni dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) è difficile dire quanti prolemuri restino in natura, ma probabilmente poche centinaia. L’ultima stima è di circa 500 individui, dopo che le popolazioni erano crollate di circa l’80% nel giro di appena tre generazioni.

@Eleonoraseeing

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".