SCOPERTE

Materia ed energia oscura: misteri inesistenti?

L'invarianza di scala del vuoto può essere la risposta che spazza vie i due maggiori misteri dell'astronomia: la materia e l'energia oscura

La legge di Newton modificata con l’invarianza di scala, applicata agli ammassi, porta a ricavare delle masse da 5 a 10 volte più piccole di quelle ottenute con la formula classica, una massa in linea con quella della materia effettivamente visibile. Crediti immagine: Pixabay

SCOPERTE – Prendiamo i due più grandi misteri dell’astronomia e della fisica attuali, quelli su cui gli scienziati si arrovellano da decine di anni, la materia e l’energia oscura. Immaginiamo ora di poterli risolvere dicendo semplicemente che non esistono e che il problema ce lo siamo creati non comprendendo quanto stavamo osservando. È proprio quanto ha fatto l’astronomo André Maeder, dell’università di Ginevra, con una serie di articoli, dove ha fatto i conti prima con l’energia oscura e infine, in quello uscito lo scorso mese su The Astrophysical Journal, con la materia oscura.

Il filo che unisce questi studi, e che sta alla base dei suoi risultati, si basa su una constatazione semplice: nel vuoto, a livello cosmologico, non ci sono una scala di lunghezza e di tempo di riferimento dato che non c’è nulla per definirle. Questo vuol dire che lo spazio vuoto a livello cosmologico gode dell’invarianza di scala, ossia le sue caratteristiche non cambiano se si scalano spazio e tempo per un fattore comune. Sarebbe come dire che un percorso di 10 chilometri e uno di mille godono delle stesse proprietà: sulla Terra di sicuro non è vero visto che ci sono pianure, valli, montagne, ma nel vuoto di fatto non c’è nulla che permetta di distinguerli. A Maeder è bastato assumere coerentemente questa proprietà per poter dare un titolo molto evocativo alla sua ultima pubblicazione: “Effetti dinamici dell’invarianza di scala dello spazio vuoto: la caduta della materia oscura?”

Una risposta affermativa a questa domanda chiuderebbe un questione aperta da ben 80 anni. Era infatti il 1927 quando l’astronomo svizzero Fritz Zwicky osservando alcuni ammassi di galassie si accorse che c’era qualcosa di strano. Erano oggetti che erano stati scoperti da pochi anni: quando i telescopi avevano dato la possibilità di vedere ben oltre i limiti della Via Lattea con sufficiente chiarezza, erano state osservate migliaia e migliaia di galassie e si era anche scoperto che di solito sono riunite in gruppi o in veri e propri ammassi, contenenti da centinaia fino a migliaia di galassie. Queste si muovono al loro interno con una velocità che dipende dalla quantità di materia contenuta nell’ammasso.

Zwicky per primo notò che le galassie sembravano muoversi troppo in fretta rispetto alla massa visibile, ovvero quella data dalla somma delle altre galassie. Doveva esserci quindi una grande quantità di materia non visibile per giustificare i moti delle galassie, addirittura fino a cento volte di più di quella visibile sotto forma di galassie. Col progressivo miglioramento degli strumenti e delle tecniche di osservazione, una parte di questa massa mancante è stata effettivamente trovata, costituita soprattutto da un gas a milioni di gradi che riempie gli ammassi ma, anche così, fino al 90% della massa continua a mancare all’appello.

Un problema simile è emerso quando sono stati misurati i moti delle stelle nelle galassie fino a grande distanza dal centro. Anche in questo caso è emerso che le stelle, soprattutto nelle regioni esterne, si muovono troppo in fretta rispetto alla quantità di materia visibile. Fu questa scoperta nel 1970 che portò l’astronoma americana Vera Rubin a coniare per questa massa mancante il nome di “dark matter”, ovvero materia oscura, così chiamata perché non emette o assorbe luce e risulta impossibile da osservare. Le ultime  osservazioni indicano che la materia oscura costituisce circa un quarto del contenuto dell’universo, concentrata soprattutto negli ammassi, mentre la materia ordinaria di cui siamo composti arriva appena al 5%. Il restante 70% rappresenta l’altro grande mistero in cui gli astronomi si dibattono dal 1998.

In quell’anno fu infatti realizzata e analizzata una raccolta di osservazioni di supernove di classe Ia avvenute in galassie molto distanti. Questo tipo di supernova avviene quando una nana bianca – ciò che rimane delle stelle di piccola massa quando cessano le reazioni nucleari – supera le 1,4 masse solari raccogliendo materia. Quando ciò avviene la materia nel nucleo della stella non è più in grado di reggere la pressione e collassa producendo una reazione nucleare istantanea che disintegra la nana bianca. L’esplosione ha la caratteristica di produrre una luminosità ben precisa e molto elevata il che rende le supernove Ia degli strumenti ideali per misurare la distanza delle galassie in cui avvengono.

Quando gli astronomi analizzarono i dati che avevano raccolto rimasero molto sorpresi: i risultati mostravano infatti che l’espansione dell’universo, invece di rallentare sotto l’effetto della gravità sta invece accelerando. Per spiegare questo fenomeno inatteso occorreva ipotizzare l’esistenza di una forma di energia che permea lo spazio vuoto. Infatti inserendo questa energia nell’equazione di campo di Einstein – l’equazione fondamentale della Relatività Generale che descrive come la massa e l’energia curvano lo spazio-tempo – emerge una forza repulsiva che fa accelerare l’espansione cosmica. Questa energia deve arrivare a costituire ben il 70% del contenuto dell’universo per giustificare i dati che si osservano.

Questo significa che oggi gli scienziati si trovano nell’infelice condizione di non conoscere la natura di ben il 95% di ciò di cui è costituito l’universo. Molte ipotesi sono state fatte per spiegare di cosa sono costituite materia ed energia oscura, ma nessuna è stata fin’ora provata. In particolare per spiegare la materia oscura gli scienziati puntano su modelli basati su estensioni del Modello Standard, la teoria che descrive la materia ordinaria di cui siamo composti. Alcune di queste estensioni prevedono l’esistenza di nuove classi di particelle che interagiscono pochissimo con la materia normale e che quindi risultano difficilissime da osservare: le candidate perfette per la materia oscura.

I fisici teorici speravano che qualche indicazione sulla validità di questi modelli sarebbe arrivata dal LHC, una volta raggiunta la massima potenza, e che magari si sarebbe anche riusciti a produrre qualcuna di queste particelle. Per il momento però queste attese sono state frustrate e perciò alle energie raggiunte non c’è modo di provare nessuna delle teorie sulla materia oscura. Fino a oggi anche i tentativi di riuscire in qualche modo a rilevare le particelle che la compongono non hanno dato frutti e così gli scienziati sono alla ricerca disperata di un segnale che provenga direttamente da questa materia e che non sia semplicemente il suo effetto gravitazionale. Non va meglio per l’energia oscura la quale dovrebbe essere legata a sua volta all’esistenza di un’altra particella di natura sconosciuta e sulla quale c’è ancora più incertezza rispetto alla materia oscura. Di fronte a tante particelle sconosciute e inosservabili l’invarianza di scala dello spazio vuoto potrebbe essere ora la soluzione che semplifica tutto.

Il modello cosmologico ad invarianza di scala

L’attuale modello che descrive l’universo, detto LCDM, si basa sulla Relatività Generale e fissa l’inizio dell’universo col Big Bang circa 13,7 miliardi di anni fa. A questo è seguita una fase di espansione che ha rallentato fino a quando l’energia oscura non è diventata la componente dominante facendo accelerare nuovamente l’espansione. La L rappresenta proprio l’energia oscura mentre CDM sta per Cold Dark Matter, ovvero materia oscura fredda, che rappresenta l’altra componente dominante dell’universo (per fredda si intende formata da particelle massive che si muovono a velocità molto inferiori a quella della luce). A suggerire a Maeder un’alternativa a questo modello è stata una constatazione sui presupposti su cui è basato. “In questo modello c’è un’ipotesi di partenza di cui secondo me non è stato tenuto conto” ha spiegato “cioè l’invarianza di scala dello spazio vuoto; in altre parole lo spazio vuoto e le sue proprietà non cambiano seguendo una dilatazione o una contrazione.”

In generale le leggi della fisica non godono dell’invarianza di scala. Tra queste vi è anche la teoria della Relatività Generale, che è quella su cui si basano le equazioni che descrivono l’universo. In passato, nell’ambito di altre ricerche, sono stati effettuati dei tentativi di riformulare l’equazione di campo in modo da renderla invariante, ma senza successo. La presenza di materia infatti definisce scale di spazio, tempo e massa rompendo l’invarianza di scala. Tuttavia anche se un po’ di materia è presente ovunque, l’universo è in gran parte vuoto, e il vuoto gode dell’invarianza di scala. Inserendo questo assunto nell’equazione di campo e applicandola alla cosmologia Maeder, in uno studio pubblicato all’inizio di quest’anno, aveva mostrato che a livello cosmologico emerge una forza repulsiva del tutto analoga a quella che dovrebbe essere generata dall’energia oscura. L’invarianza di scala quindi rende quest’ultima del tutto superflua spiegando in maniera naturale l’espansione accelerata dell’universo.

Dopo aver studiato le conseguenze dell’ipotesi dell’invarianza di scala a livello cosmologico Maeder ha verificato che tipo di conseguenze ci sarebbero sulla legge della gravitazione universale di Newton. Questa infatti deriva direttamente dall’equazione di campo sotto determinate assunzioni e descrive la forza di gravità nella maggior parte delle condizioni. Sorprendentemente l’invarianza di scala nell’equazione di campo modifica leggermente la legge di Newton, facendo comparire un nuovo termine, molto piccolo, che rappresenta un’accelerazione verso l’esterno. Questo è un termine che è trascurabile in presenza di alte densità di massa, ma che acquista importanza in presenza di basse densità come nelle regioni esterne delle galassie o negli ammassi.

La legge di Newton modificata, una volta applicata agli ammassi, porta a ricavare delle masse da 5 a 10 volte più piccole di quelle ottenute con la formula classica, una massa in linea con quella della materia effettivamente visibile. Questo risultato perciò sembra lasciare poco spazio all’esistenza di materia oscura. Anche applicata all’interno delle galassie, la legge modificata ha mostrato lo stesso effetto. I calcoli mostrano infatti un fenomeno particolare, una progressiva accelerazione col passare del tempo della velocità di rotazione delle stelle nelle regioni esterne della galassia. Quindi l’attuale velocità eccessiva delle stelle esterne, attribuita alla presenza di materia oscura, sarebbe invece solo un effetto dell’invecchiamento della galassia. In effetti alcuni recenti studi sulla rotazione di galassie appena formate sembrano confermare la teoria di Maeder, tuttavia sono risultati ancora dibattuti e che necessitano di ulteriori indagini. Qualora il fenomeno fosse confermato costituirebbe una prova molto solida a favore della teoria. Un terzo risultato spiega infine l’aumento della dispersione della velocità di oscillazione delle stelle attorno al piano galattico. È stato osservato che questa aumenta con l’età delle galassie, ma il meccanismo che causava il fenomeno fino a oggi era sconosciuto.

Se davvero la teoria formulata Maeder dovesse trovare conferme, in un attimo sarebbero spazzati via 80 anni di congetture sulla materia oscura e 20 anni sull’energia oscura aprendo una nuova pagina nell’astronomia. “L’annuncio di questo modello, che alla fine risolve due dei più grandi misteri dell’astronomia, rimane fedele allo spirito della scienza: niente può mai essere dato per scontato, non nei termini dell’esperienza, dell’osservazione o del ragionamento degli esseri umani” conclude Maeder.

Leggi anche: Vera Rubin, l’astronoma che scoprì la materia oscura

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Vincenzo Senzatela
Appassionato di scienze fin da giovane ho studiato astrofisica e cosmologia a Bologna. In seguito ho conseguito il master in Comunicazione della Scienza alla SISSA e ora mi occupo di divulgazione scientifica e giornalismo ambientale