GRAVIDANZA E DINTORNI

Violenza ostetrica, una questione complessa

Sono molte le testimonianze di donne che dichiarano di aver subito trattamenti irrispettosi o invasivi durante il parto. Per migliorare la situazione, bisognerebbe agire sulla formazione di medici e ostetriche e mettere al primo posto la comunicazione e la relazione con le donne che devono partorire.

Crediti immagine: dustin.askins, Flickr

GRAVIDANZA E DINTORNI – C’è un tema di cui si è parlato molto in Italia nell’ultimo anno e mezzo. O almeno, se ne è parlato più di quanto sia mai stato fatto prima. È il tema della violenza ostetrica, espressione già ampiamente usata in alcune parti del mondo per indicare quelli che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito come trattamenti “abusanti, irrispettosi e trascuranti” vissuti dalle donne durante il parto in ospedale. Per esempio: abusi fisici diretti, umiliazioni verbali, pratiche mediche coercitive o mancanza di riservatezza. Da noi il tema è salito alla ribalta nell’aprile 2016, con una campagna mediatica lanciata sui social network da un gruppo di associazioni di madri. Nel giro di due settimane, alla pagina Facebook #Bastatacere sono arrivate oltre 1000 testimonianze di donne che raccontavano di avere subito qualche forma di violenza ostetrica: chi si è sentita trattata male, in modo scortese o arrogante; chi riferisce di aver subìto trattamenti medici inappropriati – il riferimento è spesso a manovre di Kristeller (la spinta sulla pancia), episiotomie (il taglio del perineo) o cesarei – o “a tradimento”, cioè senza essere stata adeguatamente informata; chi ha chiesto un’epidurale e non l’ha avuta; chi avrebbe voluto stare subito con il suo neonato e non ha potuto “perché qui si fa così”; chi del suo parto pensa che sia stato “uno stupro”. Chi, insomma, sente di aver partorito non solo con dolore – che pure potrebbe essere almeno in parte contenuto – ma anche con un sovraccarico di umiliazioni e sofferenze gratuite.

E dopo le singole testimonianze, necessariamente aneddotiche, sono arrivati anche dei dati, raccolti da Doxa in un’indagine sulla percezione del parto in Italia, condotta per conto dell’Osservatorio sulla violenza ostetrica (OVO Italia) e presentata lo scorso settembre. Dati che si riferiscono a un campione di 424 donne italiane con almeno un figlio tra 0 e 14 anni – rappresentativo, specifica Doxa, di cinque milioni di italiane – e che la fondatrice di OVO Elena Skoko non esita a definire “sconvolgenti”. Due donne su dieci (rappresentative quindi di un milione di donne) hanno dichiarato di aver subìto sicuramente o in parte violenza ostetrica durante il parto, quattro su dieci di aver subìto pratiche lesive della propria dignità o integrità psicofisica, tre su dieci di non essersi sentite adeguatamente assistite. Sei su 100, inoltre, hanno dichiarato che il trauma del parto è stato tale da portarle a non avere altri figli. “Per la prima volta abbiamo a disposizione un’istantanea sul livello di soddisfazione delle donne che partoriscono in Italia, e le zone d’ombra emerse sono tali che dovrebbero spingere subito le istituzioni ad approfondire la questione”, dichiara Skoko che, il 25 novembre scorso, è stata tra le 33 donne di varie associazioni a portare il tema della violenza ostetrica anche in Parlamento, all’iniziativa voluta dalla Presidente della Camera Laura Boldrini per celebrare la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Com’era forse inevitabile, la campagna social, i dati, l’esposizione mediatica del tema hanno suscitato reazioni molto differenti. Molto dura quella ufficiale dell’Aogoi, Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani, secondo la quale quella che emerge dall’indagine sarebbe una “falsa ricostruzione della sanità italiana“, diffamante e denigratoria. L’Aogoi contesta in particolare l’anonimato delle testimonianze di #BastaTacere e l’assenza di informazioni precise su fonti e metodi dell’indagine statistica di Doxa, aspetti che non consentirebbero “alcuna leale possibilità di contraddittorio e confutazione”. L’associazione ha presentato a novembre una diffida formale nei confronti dei promotori della campagna e dell’indagine. Di tutt’altro tenore la presa di posizione del Collegio delle ostetriche di Bolzano, che il 12 dicembre scorso ha inviato ai media locali un comunicato stampa dal titolo programmatico “Dobbiamo parlare di violenza ostetrica!”. Il documento puntualizza la definizione di violenza ostetrica, come qualcosa che avrebbe a che fare con “l’imposizione spesso standardizzata di cure o pratiche alle donne senza il loro consenso, senza fornire le adeguate informazioni e talvolta contro la volontà delle stesse donne” e non esita a dichiarare come “probabilmente talvolta sono stati oltrepassati i limiti da parte di ostetriche, medici e personale infermieristico”.

Anche per Elisabetta Canitano, ginecologa dell’Asl Roma D, presidentessa dell’Associazione Vita di donna e attivista per i diritti delle donne, come per la collega Anita Regalia, già responsabile della sala parto dell’Ospedale San Gerardo di Monza e socia fondatrice dell’Associazione Iris, che si occupa anche di ricerca e riflessione sull’assistenza appropriata alla nascita, è giusto puntare i riflettori su un problema che – dicono – effettivamente esiste. “Ma bisogna stare attenti”, puntualizzano entrambe, “a non cadere nel giustizialismo, a non fomentare un clima di rabbia feroce, di muro contro muro tra donne e operatori che rischia invece di essere controproducente”.

Ora, è chiaro che l’utilizzo di un termine crudo come violenza ostetrica può essere problematico, ma – polemiche a parte – che non tutto vada come dovrebbe nell’assistenza alla nascita nel nostro Paese ce lo raccontano anche altri dati ed esperienze. Prendiamo per esempio i dati sui cesarei, che sono stati il 35% dei parti nel 2014, con una punta del 60% in Campania (dati del Ministero della Salute). Decisamente troppi, come ammettono tutti a partire dal Ministero stesso, anche se sembra essere in corso un miglioramento. Secondo l’ultimo Piano nazionale esiti, nel 2016 i primi parti cesarei sono stati il 25% del totale, contro il 29% nel 2010: “Un risultato indubbiamente positivo, ottenuto negli anni grazie al lavoro congiunto di Ministero, Istituto Superiore di Sanità, associazioni scientifiche, regioni e aziende sanitarie, singoli operatori”, tiene a precisare Elsa Viora, responsabile del servizio di ecografia e diagnosi prenatale dell’Ospedale Sant’Anna di Torino e presidentessa Aogoi. Ma comunque un risultato che cela ancora delle ombre, considerato che ci sono ospedali dove 9 parti su 10 sono cesarei.

Oppure prendiamo le informazioni disponibili, per quanto scarse e frammentate, su uno degli interventi ostetrici più controversi, l’episiotomia, il taglio del perineo per favorire l’uscita del bambino. Già nel 1985, l’Organizzazione Mondiale della Sanità la riteneva una pratica utile in alcune circostanze selezionate, ma dannosa se praticata di routine – posizione confermata da una revisione Cochrane del 2012 – e suggeriva il 10% come quota ragionevole di episiotomie per un centro nascita. Alcuni Paesi sono in linea: in Danimarca il tasso di “tagli” è del 4,9%, in Svezia del 6,6%, in Islanda del 7,2% (dati Europeristat 2010). E in Italia? L’indagine Doxa riferisce un drammatico 54%. Dati ufficiali aggiornati non ce ne sono: gli ultimi sono quelli relativi a un’indagine conoscitiva sul parto dell’Istituto Superiore di Sanità del 2002 e sono anche peggiori: 60,4% di episiotomie al Nord, 66,1% al Centro e 79% al Sud. Del tema si è occupata qualche anno fa anche un’inchiesta di Repubblica: su 18 ospedali censiti, 12 superavano il 50%, con punte dell’80%.

Nel complesso, questi dati raccontano che l’assistenza alla nascita in Italia è quanto meno a macchia di leopardo, come del resto constatava nel 2010 il piano per la riorganizzazione dei punti nascita promosso dall’allora Ministro della Salute Ferruccio Fazio (quello, per intenderci, che prevedeva la chiusura dei punti nascita con meno di 500 parti l’anno). Piano che per altro parlava già di “umanizzazione del percorso nascita” e che però è rimasto ampiamente inattuato.

Il problema, del resto, non è che non si sappia bene cosa fare: le buone pratiche per l’assistenza al parto fisiologico sono ormai ampiamente note. È vero: in Italia di linee guida ufficiali su questo argomento non ce ne sono, ed è un male perché – come afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze) – “proprio la disponibilità di linee guida nazionali consente di mettere in luce l’inappropriatezza di pratiche consolidate, oltre che l’eterogeneità regionale dell’assistenza”. Questo però non significa che non esistano altre raccomandazioni cliniche serie e rigorose a cui fare riferimento. Ci sono le indicazioni dell’OMS, per esempio, oppure le linee guida sul taglio cesareo, che parlano di “sostegno emotivo continuo durante il travaglio di parto” (la famosa assistenza one-to-one da parte di un’ostetrica) per ridurre la probabilità di un taglio cesareo e di parto operativo (con ventosa), oltre che quella di dover ricorrere ad altri interventi medici come l’epidurale. E ci sono le Linee guida sull’assistenza al parto fisiologico del NICE, National Institute for Health and Care Excellence inglese, di cui proprio la Fondazione Gimbe ha realizzato la versione italiana.

La prima riga della sezione dedicata all’assistenza al travaglio è illuminante: “Trattate con rispetto ogni donna in travaglio”. E ancora: “Assicuratevi che abbia il controllo della situazione e che sia coinvolta in quello che sta accadendo, riconoscendo che la chiave per ottenere questo risultato sta nel modo con cui vi ponete”. Più che una serie di raccomandazioni cliniche, la sezione sembra un manuale di buone maniere: “Stabilite un buon rapporto con la donna, chiedendole desideri e aspettative, siate consapevoli dell’importanza del tono e del contegno che assumete, e delle parole che usate”. Ma anche: “Bussate prima di entrare in sala parto, rispettate lo spazio personale della donna, chiedete il permesso prima di effettuare una visita”. Si fanno queste cose, da noi? Dipende. Molte volte sì, si fanno (e del resto molte donne sono soddisfatte della loro esperienza di parto). Altre volte, però, no.

Cambiare le cose dove non vanno è necessario – questo non lo nega nessuno – ma riuscire a farlo non è semplice, anche perché queste situazioni dipendono da una miriade di ragioni complesse, a partire da quelle economiche. “Bisogna rendersi conto del contesto in cui molti di noi, che pure ci mettono l’anima, lavorano” afferma Viora. “Per esempio: lo sappiamo bene che l’assistenza one-to-one dell’ostetrica rappresenta la situazione ideale, ma ci sono realtà dove assicurarla per tutte le partorienti è praticamente impossibile. Il punto è che il Servizio Sanitario Nazionale sta vivendo una crisi gravissima e non si può parlare di assistenza alla nascita prescindendo da questo dato”. Il che però non significa che i soldi per sistemare le cose non ci saranno mai, perché se da una parte costa garantire interventi sanitari efficaci e appropriati, dall’altra costa anche non garantirli. “Certo: il Servizio Sanitario Nazionale è fortemente sotto-finanziato rispetto ad altri Paesi europei, ma va detto che almeno il 20% delle risorse attualmente investite in sanità non producono alcun miglioramento in termini di salute, e quindi sono sprechi“, sottolinea Cartabellotta. Un quadro generale difficile, dunque, nel quale per di più si inserisce un evento, la nascita, che è uno dei più redditizi in ambito sanitario. Canitano lo dice senza mezzi termini: “L’atto della nascita è una fonte di guadagno infinito, ed è da qui che bisogna partire per riformare l’assistenza, accettando il fatto che se le cose si fanno davvero per bene, certi guadagni possono anche ridursi”.

Gli aspetti economici, comunque, non sono gli unici in gioco. Secondo Regalia, “un altro dei fattori da considerare è la cultura ostetrica accademica italiana, che forma i medici nella convinzione che fare di più (esami, procedure, interventi) garantisca più sicurezza che fare di meno”. Un’idea fortemente radicata non solo tra i ginecologi ma anche tra molte ostetriche formate dai medici e che è difficile da sradicare. “Se si impara all’università e nei primi tirocini che fare un’episiotomia di routine è meglio che suturare una lacerazione spontanea diventa difficile cambiare atteggiamento, nonostante quello che dice la letteratura internazionale. Bisogna essere molto motivati, ricostruirsi autonomamente una visione diversa della nascita, che tenga finalmente conto del fatto che un’assistenza adeguata prevede di intervenire e interferire il meno possibile”.

Attenzione: non significa che devono tornare tutte a partorire in casa. Significa però porsi di fronte alla donna in travaglio in modo completamente diverso. “Dobbiamo convincerci che nella maggioranza dei casi il parto è un evento fisiologico, non una drammatica emergenza, e che la donna in travaglio non è una paziente che ha appena avuto un infarto o una peritonite acuta – sulla quale dunque intervenire in fretta anche in modo piuttosto invasivo – ma una donna che ha in sé tutte le risorse che le servono per far nascere il suo bambino”, sottolinea Gabriella Pacini, ostetrica libera professionista e presidentessa del gruppo attivista Freedom For Birth – Rome Action Group. Anche perché, continua Pacini, “trattare la partoriente come un’ammalata la mette in una condizione di passività che interferisce pesantemente con il buon esito del parto, esponendola così a un maggior numero di interventi che avrebbero potuto essere evitati. Invece, bisogna mettersi in testa – a partire dalle donne stesse – che il loro ruolo nel parto è e deve essere attivo. Che sono loro a partorire, e non qualcun altro a farle partorire”. Certo, per chi lavora in ospedale, un luogo per definizione deputato a intervenire su situazioni di patologia e non di fisiologia, è un cambiamento radicale di visione e atteggiamento. “Ma cominciano a farsi strada operatori che lavorano in questa direzione, con questa consapevolezza”, ammette Pacini.

Di sicuro, se è vero che medici e ostetriche non “fanno partorire” le donne, è altrettanto vero che possono fare molto per metterle nelle condizioni migliori per affrontare travaglio e parto. Di queste condizioni migliori fa parte, dicevamo, anche la comunicazione. “Ormainon lo dice più solo l’esperienza”, spiega Regalia, “ma lo confermano i dati delle neuroscienze: il modo con cui ciascuno di noi si pone in una relazione modifica la relazione stessa, e se parliamo di una relazione di cura, ne modifica gli esiti”. Di questo, però, i medici non sono ancora pienamente consapevoli. Non tutti, almeno. È, di nuovo, un problema di formazione. “Ai futuri medici non viene insegnato che il lavoro clinico passa attraverso atti relazionali, che ne diventano una parte integrante”, spiega Elena Vegni, psicologa clinica all’Ospedale San Paolo di Milano e docente di comunicazione e relazione in medicina all’Università di Milano. “Così, se il medico dice una battuta infelice o addirittura volgare – può capitare, anche come forma inconscia di difesa contro la difficoltà di avere a che fare con parti del corpo così intime come sono quelle riproduttive – spesso neanche se ne accorge. Per lui (o lei) magari è solo una frase tra tante, pronunciata forse in un momento di stanchezza a una delle tante donne che vede partorire quel giorno. Ma nella mente di quella donna, quella singola frase si scolpisce in modo profondo e rischia di caratterizzare per sempre il suo ricordo del parto. Gli operatori devono essere consapevoli di questa spaccatura”. In effetti qualcosa in questo senso si sta muovendo: ne è testimonianza il corso tenuto da Vegni stessa, ma anche l’attivazione da parte proprio dell’Aogoi, in collaborazione con Iulm, di un master sulla comunicazione in ginecologia, di cui si è chiusa da poco la prima edizione. “La comunicazione sta diventando sempre di più un momento essenziale, forse il più difficile del nostro lavoro” ha scritto Viora in una lettera inviata ai soci Aogoi in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. “A tutto questo nessuno ci ha preparati, le capacità comunicative di ognuno di noi sono spesso frutto della nostra indole, della nostra esperienza personale. È ora indispensabile che noi ‘impariamo’ a comunicare”.

E alle capacità comunicative dovrebbero aggiungersi anche quelle emotive, empatiche. Perché è indubbiamente vero: il parto non è solo una “meravigliosa espressione di sé”, un “momento sublime e potente”, come insiste oggi un certo framework narrativo. È anche ansia, dolore, spavento, terrore. “Di fronte a queste emozioni”, afferma Canitano, “alcune donne hanno reazioni che spaventano gli operatori, che devono quindi imparare a contenere prima di tutto sé stessi, per reagire in modo adeguato”. Non, al contrario, farsene sopraffare, col rischio di finire a mettere in atto qualche intervento magari evitabile pur di far cessare in fretta quella reazione, quella sofferenza.

Insomma, gli ingredienti per uscire da questa situazione, per ridurre e magari azzerare la quota di donne che ricordano il loro parto con terrore, non sono poi molti: linee guida nazionali e internazionali, distribuzione delle risorse per evitare sprechi, formazione, attenzione alla comunicazione e alla relazione. Ma, soprattutto, volontà di cambiare davvero le cose e rispetto per le donne (tutte) e le loro scelte, che possono essere le più diverse. “Ogni volta che decidiamo che un tipo di comportamento o di soluzione è meglio di un altro facciamo un danno”, afferma Canitano. “Se spingiamo verso il parto naturale scontentiamo le donne che per esempio avrebbero voluto l’epidurale, e senza stanno male. Viceversa, se spingiamo verso l’epidurale, scontentiamo le donne che avrebbero voluto un’esperienza meno medicalizzata. Quindi, per prima cosa le donne devono pretendere un’accurata informazione sulle varie opzioni possibili e sulle conseguenze di ciascuna, poi devono finalmente imparare a domandarsi: cosa voglio davvero, io? Come voglio partorire? Infine, i servizi sul territorio devono essere messi nelle condizioni di accettare e soddisfare tutti i ‘tipi’ di donne. Quelle con gravidanza a rischio che hanno bisogno di un’assistenza di terzo livello, quelle che stanno benissimo ma si sentono tranquille solo in ospedale con un medico a portata di mano, quelle che il medico non vorrebbero proprio vederlo e preferirebbero l’intimità di una casa del parto, se non di casa propria. Solo così le donne potranno essere veramente libere”.

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance