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Dieta e microbioma: quanto ne sappiamo?

Una revisione pubblicata su BMJ mette in ordine la letteratura in merito a infiammazioni intestinali e alcune malattie autoimmuni, per evitare pericolose generalizzazioni

In che modo modificare la propria dieta può rafforzare il microbioma, un’importante componente del nostro organismo? Crediti immagine, Pixabay

APPROFONDIMENTO – Oggi in molti parlano di microbioma e del suo importante ruolo protettivo per la nostra salute, nelle malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide o la sclerosi multipla e nelle malattie infiammatorie croniche intestinali, (in inglese inflammatory bowel disease, IBD) come il Morbo di Crohn o la colite ulcerosa.

La letteratura in materia, però, offre al momento risultati non del tutto omogenei, non tanto sul ruolo positivo giocato dal microbioma, quanto sull’effettiva possibilità che modificare la propria dieta (e soprattutto: quale dieta?) possa bastare per rafforzare questa importante componente del nostro organismo. In particolare ci si chiede se effettivamente, e in che misura, regimi alimentari che fanno ampio uso di probiotici (microrganismi non patogeni in grado di riprodursi nell’intestino) migliorano davvero alcune funzioni del nostro organismo come l’autoimmunità, agendo sul microbioma.

Nei giorni scorsi la rivista BMJ ha pubblicato una revisione sistematica di tutti gli studi, pre-clinici e clinici sulla relazione fra dieta e alterazione del microbioma, in relazione appunto ad alcune malattie autoimmuni: artrite reumatoide, spondiloartrite (una forma di artrite cronica) e sclerosi multipla, e due malattie infiammatorie del tratto intestinale: Morbo di Crohn e colite ulcerosa.
Sebbene fiocchino i suggerimenti alimentari, sul web e non, da parte di più o meno improvvisati guru, per far star bene il proprio microbioma, al momento – precisa BMJ – non esistono delle linee guida validate in materia, anche se si cominciano a osservare evidenze scientifiche circa i benefici di alcune diete, come quella mediterranea a basso contenuto di carne rossa e ad alto contenuto di pesce e olio d’oliva.

L’era della metagenomica

La ricchezza del microbioma è la sua diversità genetica, che abbiamo iniziato a studiare nel dettaglio grazie allo sviluppo della metagenomica, l’analisi del DNA dei microrganismi che vivono nel tratto intestinale umano. Nel 2010 la rivista Nature ha reso noto uno studio che aveva identificato oltre 3 milioni di geni da campioni fecali di 124 individui europei. Il set genetico è risultato circa 150 volte più grande del patrimonio genetico umano, e oltre il 99% di questi geni è di origine batterica, il che indica che l’intera coorte ospita tra 1.000 e 1.150 specie batteriche prevalenti e ogni individuo almeno 160 di tali specie, anch’esse ampiamente condivise.

Possiamo dire quindi che al momento ci troviamo in una fase in cui possediamo gli strumenti (la metagenomica) per indagare geneticamente come la dieta modifichi il microbioma, strumenti che ci permetteranno nel prossimo futuro di approfondire la validità delle correlazioni finora individuate. Si tratta comunque di ricerche a più passaggi: da una parte bisogna continuare a studiare la composizione del microbioma in relazione al regime alimentare anche nelle persone sane, e parallelamente cercare di capire il ruolo effettivo di queste modificazioni del microbioma nell’evoluzione di alcune malattie o – addirittura – nella loro prevenzione.

Dieta e microbioma nelle infiammazioni intestinali

Vari studi che hanno correlato la dieta all’esito delle infiammazioni croniche intestinali come colite ulcerosa e Morbo di Crohn, hanno mostrato un effetto benefico sui pazienti, anche se solo transitorio. Una bassa probabilità di recidiva nei pazienti con colite ulcerosa è stata osservata in uno studio su una dieta a basso contenuto di zolfo. Diete basate sui carboidrati complessi che rimuovono gli zuccheri semplici hanno anche mostrato benefici clinici nei bambini affetti da morbo di Crohn.

Una delle prime premesse nella ricerca sui microbiomi è stata che il microbiota intestinale potrebbe essere positivamente modificato attraverso l’ingestione di probiotici o prebiotici. Tuttavia, sebbene queste promesse abbiano portato a una crescita del mercato dei probiotici, le prove effettive di questi benefici sono ancora limitate.

I probiotici sono stati studiati per il loro potenziale teorico nel trattamento dei disordini immunitari e infiammatori. Poiché vengono assunti per via orale, devono essere in grado di resistere al passaggio attraverso l’ambiente acido dello stomaco. Inoltre, poiché non colonizzano permanentemente l’intestino, devono essere prese indefinitamente per mantenere tutti i benefici, il che può limitare la loro efficacia.

Esistono prove controverse per un effetto benefico dei probiotici nel trattamento delle infiammazioni interstinali. Nel caso della malattia di Crohn, due ricerche hanno evidenziato un miglioramento dell’indice di attività clinica, anche se un altro studio, controllato con un gruppo placebo, non ha trovato differenze circa i tempi di ricaduta. Anche altre metanalisi precedenti – chiosa BMJ – non sono riuscite a trovare un beneficio effettivo dei probiotici nella malattia di Crohn, suggerendo che non ci sono prove certe a sostegno di un ruolo benefico di queste sostanze nell’induzione o nel mantenimento della remissione nella malattia.

Allo stesso modo, le prove fino ad oggi raccolte riguardanti la colite ulcerosa sono contraddittorie, con alcuni studi che mostrano un effetto benefico di probiotici mentre altri non mostrano gli stessi risultati, tanto che le meta-analisi finora condotte sembrano non suggerire alcuna differenza significativa tra chi ha fatto uso di probiotici e il gruppo placebo.

Anche riguardo ai prebiotici – che a differenza dei probiotici non vengono assorbiti dall’organismo ma sono utilizzata dalla flora intestinale – si ritiene che sebbene abbassino il pH attraverso la fermentazione batterica, promuovendo l’integrità della barriera e riducendo la regolazione delle citochine pro-infiammatorie, tuttavia, come per i probiotici, non vi sono al momento evidenze nette dei benefici dell’uso dei prebiotici nelle malattie infiammatorie.

Carne rossa e Artrite reumatoide
Nell’ultimo decennio, un grande numero di prove ha caratterizzato i meccanismi attraverso i quali l’alimentazione potrebbe alterare l’ecologia microbica intestinale in relazione alle malattie autoimmuni, e i risultati finora più interessanti in termini di correlazione hanno riguardato la carne rossa. La maggior parte delle prove che correlano l’assunzione di carne rossa e l’incidenza dell’artrite reumatoide deriva infatti da grandi coorti epidemiologiche. Uno studio prospettico ha rilevato che un’elevata assunzione di carne rossa era associata a un aumentato rischio di artrite reumatoide, anche un altro studio, il noto Nurses’ Health Study – una serie di studi prospettici condotti negli ultimi 40 anni che hanno esaminato l’epidemiologia e gli effetti a lungo termine di nutrizione, ambiente e vita lavorativa degli infermieri in relazione alla loro salute – ha rilevato che una minore assunzione di carne rossa è significativamente associata a una diminuzione del rischio di artrite reumatoide con esordio precoce.

Probiotici e artrite reumatoide
Infine, secondo quanto riporta BMJ, diversi studi hanno studiato i potenziali benefici antinfiammatori e clinici dei probiotici nell’artrite reumatoide, individuando alcune correlazioni promettenti. Uno di questi studi ha riscontrato che nei pazienti con artrite reumatoide cronica in trattamento farmacologico stabile, il Lactobacillus casei ha diminuito significativamente l’aggressività della malattia rispetto al placebo e ha anche alterato l’equilibrio delle citochine a favore di una migliore risposta anti-infiammatoria. Anche un precedente studio pilota sulla somministrazione di Lactobacillus casei a pazienti con artrite reumatoide lieve aveva riportato un effetto simile.

@CristinaDaRold

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.