SALUTE

Il glutammato provoca dolore cronico?

Secondo uno studio pilota condotto in Kenya orientale, ci sarebbe una correlazione tra il dolore cronico e il consumo di glutammato

Il glutammato è stato scoperto nel 1907 dal chimico giapponese Kikunae Ikeda nel tentativo di conoscere il segreto del Dashi – una zuppa tradizionale preparata con l’alga Kombu. Crediti immagine: Pixabay

SALUTE – Il dolore cronico è il sintomo principale che accumuna diverse patologie come la fibromialgia, le neuropatie, fino al cancro. È uno dei problemi di salute più diffusi, ne soffre circa un quinto della popolazione europea con l’Italia ai primi posti ed è molto comune anche nei paesi in via di sviluppo. Il glutammato è un comune esaltatore del gusto, molto diffuso in vari alimenti conservati, consumati nelle diete di tutto il mondo e ben noto per la cosiddetta “sindrome da ristorante cinese” che gli ha garantito una reputazione piena di ombre e di pregiudizi.
Stando ai risultati pubblicati sulla rivista Nutrition, i partecipanti allo studio hanno mostrato segnali di riduzione del dolore cronico in seguito a una riduzione il glutammato di sodio nelle loro diete.

Da “gusto delizioso” a “gusto che uccide”

Il glutammato monosodico è il sale sodico dell’acido glutammico, un amminoacido naturale non essenziale – il nostro organismo può produrlo da sé e non è necessario assumerlo nell’alimentazione. Scoperto nel 1907 dal chimico giapponese Kikunae Ikeda nel tentativo di conoscere il segreto del Dashi – una zuppa tradizionale preparata con l’alga Kombu – il glutammato fu associato a un nuovo sapore da aggiungere ai quattro tradizionali, dolce, salato, amaro e acido, battezzato umami, ovvero “sapore delizioso”. Intuite le potenzialità del glutammato come condimento, fu subito brevettato il nuovo processo di produzione, estraendolo dal glutine del frumento. Diventato popolare nelle cucine orientali, negli anni ’50 partirono le ricerche per sintetizzarlo industrialmente e rendere così ancora più semplice la produzione di un condimento diventato nel frattempo assai ricercato e indispensabile quanto il sale da cucina. Oggi, è dal processo di fermentazione batterica, ancora più versatile ed economico, che proviene quasi tutto il glutammato prodotto a livello mondiale ogni anno, circa tre milioni di tonnellate.

L’acido glutammico è molto presente anche in natura e in diversi alimenti, legato alle proteine in forma libera o come additivo, come per esempio nel parmigiano e altri formaggi stagionati, nella salsa di pomodoro, nei funghi, nelle acciughe, nei comuni dadi da brodo – in generale sono i cibi particolarmente proteici, stagionati o fermentati ad esserne ricchi. Il consumo maggiore si registra in Asia, che copre circa il 90% di tutta la produzione mondiale, e secondo le stime la domanda continua a crescere ogni anno.

Nonostante questo successo commerciale, sul glutammato pesa una cattiva reputazione nata negli anni ‘60 per i sospetti che aleggiavano attorno alle nuove catene di ristoranti cinesi all’epoca ancora poco conosciute: nell’aprile del 1968, il dottor Robert Ho Man Kwok del National Biomedical Research Foundation scrisse una lettera al New England Journal of Medicine, denunciando una strana sindrome osservata il più delle volte dopo aver mangiato cinese. Il mito della “sindrome da ristorante cinese” secondo cui l’abbondanza di glutammato monosodico è responsabile di sintomi come mal di testa, ansia, palpitazioni ed è responsabile di danni cerebrali nei bambini o addirittura del morbo di Alzheimer, è stato in seguito sfatato con diversi studi.

Tuttavia, nonostante nella comunità scientifica ci sia una generale convinzione che si tratti solo di una leggenda metropolitana e già da tempo ci siano ipotesi alternative ai test che mostrano reazioni anomale dei consumatori, una certa paura sopravvive nell’immaginario collettivo. Questo è in parte dovuto al fatto che il glutammato è presente anche nel nostro organismo (una media di circa 2 grammi) in forma libera nel cervello, dove svolge la funzione di neurostrasmettitore, ed è quindi molto importante in caso di disfunzioni o per effettuare studi sulle malattie cerebrali. Per questo, il glutammato non è stato risparmiato da ulteriori, nuovi miti che lo hanno additato come “il gusto che uccide” o il “killer del cervello” – queste e altre storie da marketing della paura sono raccontate nel libro di Dario Bressanini Pane e Bugie. Ora è la volta di un nuovo test che mette sul banco da laboratorio (e degli imputati) un prodotto specifico, il Mchuzi mix.

Dieta da riformulare: Mchuzi mix è il nuovo sospettato

L’esposizione al glutammato non è la stessa in tutti i paesi. In Kenya, per esempio, la quantità di cibi contenente glutammato è generalmente molto più bassa. Tra i pochi prodotti a maggiore concentrazione di glutammmato c’è il Mcuzi Mix, un condimento a base di diverse spezie mescolate.

La ricerca, guidata da Kathleen Holton dell’American University, in collaborazione con la Michigan University e la Meru University of Science and Technology in Kenya, è nata dalla rilevazione del dato anomalo e preoccupante della diffusione di dolore cronico nella città di Meru, alle pendici del Monte Kenya: circa il 60% dei residenti ha dichiarato di soffrire di questi sintomi, una percentuale almeno doppia rispetto ai valori registrati di solito.

Obiettivo dello studio era quello di verificare se e in che modo una variazione nella dieta potesse risultare più o meno efficace e più economica dei farmaci da banco nell’alleviare il dolore cronico, tenendo d’occhio il consumo di glutammato. Allo studio hanno partecipato trenta volontari con sintomi di dolore cronico persistente da almeno tre mesi e in almeno tre quadranti del corpo, oltre a presentare altri sintomi neurologici, come mal di testa, stanchezza cronica, disfunzione cognitiva e disturbi del sonno.

I partecipanti sono stati divisi in quattro gruppi: consumatori abituali di Mchuzi Mix, ai quali è stato somministrato un condimento sostituto simile, ma privo di glutammato monosodico; soggetti che hanno dichiarato di bere poca acqua e di non essere consumatori abituali di glutammato monosodico, ai quali è stato chiesto di aumentare il consumo di acqua fino a otto tazze al giorno; soggetti consumatori di glutammato e di poca acqua; un gruppo di controllo a cui è stato somministrato paracetamolo. I miglioramenti più significativi si sono osservati nel gruppo che ha eliminato il glutammato e ha bevuto più acqua, così come per il gruppo di controllo del paracetamolo.

Si tratta di risultati preliminari che non rimettono in discussione quanto appurato finora sul glutammato, ma che spingono verso uno studio di respiro più ampio “Questa ricerca preliminare è coerente con quanto ho avuto modo di appurare sul dolore cronico negli Stati Uniti”, ha dichiarato Holton come riportato da ScienceDaily “Non conosciamo ancora quale sia l’esposizione che provoca questa suscettibilità alimentare, lo studio pilota suggerisce la necessità di un trial clinico su larga scala, un intervento nell’alimentazione può costituire un’opzione sostenibile economicamente per i Paesi in via di sviluppo”.

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.