GRAVIDANZA E DINTORNI

Coccole di mamma, cervello ed epigenetica

Nei topi, il tipo di cure materne influenza l'organizzazione del genoma nelle cellule dell'ippocampo, a dimostrazione che le prime esperienze di vita contribuiscono a plasmare il cervello

Le cure materne lasciano il segno nel DNA dei piccoli, anche se non è ancora chiaro quali siano le conseguenze biologiche di avere più o meno trasposoni in una certa parte del cervello. Crediti immagine: NICHD / NIH, Flickr

GRAVIDANZA E DINTORNI – Ormai è sempre più chiaro: ciò che siamo dipende dai nostri geni, certo, ma anche dalle nostre prime esperienze – in utero e nella prima infanzia – e dunque dall’ambiente e dal contesto sociale in cui veniamo al mondo e cresciamo. L’ultima conferma in questo senso arriva da uno studio del gruppo di Fred “Rusty” Gage del Salk Institute di San Diego, in California, relativo all’effetto delle cure materne sullo sviluppo del cervello nei topi. I ricercatori hanno raccontato su Science che i cuccioli allevati da madri che potremmo definire “ad alto contatto”, cioè che passavano più tempo a leccarli, pulirli, spulciarli e, in generale, prendersi fisicamente cura di loro, avevano un numero minore di trasposoni (frammenti di DNA capaci di replicarsi in modo autonomo, saltando da una posizione all’altra del genoma) nei neuroni dell’ippocampo. Una nuova prova che l’ambiente – inteso in questo caso come cure materne – lascia il segno nel DNA dei piccoli, anche se non è ancora chiaro quali siano le conseguenze biologiche di avere più o meno trasposoni in una certa parte del cervello.

Lo studio scientifico dell’importanza delle cure materne e del contatto sullo sviluppo nervoso e comportamentale dei mammiferi non è certo cosa nuova. Qualcuno ricorderà forse gli esperimenti dei coniugi americani Harry e Margaret Harlow con i piccoli di macaco, fatti a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso: alla nascita, le scimmiette venivano allontanate dalla madre e messe in una gabbia con una mamma surrogata di fil di ferro o di spugna. Per quanto solo il pupazzo di ferro avesse un biberon dal quale i piccoli potevano nutrirsi, questi ultimi preferivano di gran lunga passare il tempo con la “mamma” di spugna, più morbida e calda, spostandosi su quella metallica solo per la poppata. In ogni caso, l’assenza della vera madre si traduceva prima o poi in anomalie comportamentali, come terrore per le nuove situazioni o incapacità di gestire le interazioni con altre scimmie.

Nei decenni successivi, molti altri studi condotti con roditori e primati – più qualche osservazione sugli esseri umani – hanno indagato l’effetto dello stile parentale sullo sviluppo dei cuccioli. Per quanto riguarda i topi, una review pubblicata nel 2015 sulla rivista Neuropsychopharmacology ricorda per esempio che la separazione precoce dalla madre comporta nei piccoli aumento dell’impulsività, riduzione della capacità di attenzione e compromissione dell’apprendimento sociale, mentre il fatto di aver avuto una mamma a “basso contatto” si associa, in età adulta, a una maggiore reattività allo stress e a un peggioramento delle capacità di memoria e apprendimento. Nel caso degli esseri umani, variazioni nello stile di attaccamento con la mamma o altre figure di riferimento sono state associate ad alterazioni nella risposta allo stress, mentre esperienze particolarmente negative, come l’abuso o la trascuratezza estrema, a riduzione delle performance cognitive, compromissione dello sviluppo sociale e aumento dei disturbi di personalità.

Se gli effetti delle prime esperienze sullo sviluppo nervoso e comportamentale dei mammiferi sono noti da tempo, quello che si sta cercando di capire negli ultimi anni è da quali meccanismi biologici dipendano. Già nel 2004 uno studio ormai classico chiamava in causa meccanismi di tipo epigenetico, capaci di modulare lo stato di espressione dei geni, cioè il fatto che siano accesi o spenti, senza intaccarne la sequenza di DNA. Lo studio, condotto su ratti, mostrava che nelle cellule dell’ippocampo di animali che avevano ricevuto dalle madri poche cure in termini di contatto fisico (parliamo sempre di leccate e pulizie del pelo) un gene coinvolto nella risposta allo stress era meno attivo che nelle cellule di animali accuditi più assiduamente. Un effetto dovuto a livelli più elevati di una particolare modifica epigenetica del gene stesso, cioè la sua metilazione (aggiunta di un gruppo chimico chiamato appunto gruppo metile). Qualche anno dopo, un’altra serie di esperimenti ha portato a concludere che, sempre nei ratti, il tipo di accudimento materno si traduce in realtà in modifiche ancora più estese dei livelli di alterazione epigenetica e di espressione genica nell’ippocampo, relative a centinaia di geni. E ora il nuovo studio di Gage e colleghi, condotto questa volta nei topi, aggiunge un elemento in più al quadro.

I ricercatori si sono concentrati su un particolare elemento genetico considerato tra i responsabili, almeno nei topi, del fenomeno di plasticità cerebrale: i retrotrasposoni di tipo L1. Si tratta di una famiglia di frammenti di DNA con la capacità di spostarsi da una posizione all’altra del genoma, moltiplicandosi durante questo trasferimento: nel genoma del topo ce ne sono circa 3000 copie. I ricercatori sono andati a vedere che cosa succedeva agli elementi L1 di topolini sottoposti a due tipi di cure materne: quelli allevati da madri “ad alto contatto”, che passavano molto tempo ad accudirli, e quelli allevati da madri “a basso contatto”. Risultato: nell’ippocampo di questi ultimi c’erano molte più copie di retrotrasposoni L1 che in quello dei primi. Un effetto – spiegano gli autori, a partire dalla postdoc Tracy Bedrosian che ha eseguito gli esperimenti – probabilmente determinato da un meccanismo epigenetico, cioè la maggior metilazione di un gene che dovrebbe tenere a bada questi elementi genetici “salterini”. Un dato affascinante riguarda inoltre il caso particolare di topolini con madri “a basso contatto” allontanate temporaneamente dai loro cuccioli. Come atteso, al loro ritorno le mamme compensavano l’assenza aumentando le cure e i contatti nei confronti dei piccoli, che, in effetti, non andavano più incontro alla proliferazione di elementi L1 osservata nei cuccioli poco accuditi, ma mantenevano un livello di elementi mobili nelle cellule dell’ippocampo paragonabile a quello dei piccoli di madri più accudenti.

Se i dettagli del lavoro sono piuttosto complessi, il suo senso generale è semplice: le esperienze a cui i topolini sono sottoposti nelle primissime settimane di vita hanno un’influenza diretta sull’organizzazione del genoma di una porzione del loro cervello. Certo, che cosa questo significhi per la vita dei topolini non è ancora del tutto chiaro: Bedrosian e colleghi hanno osservato che, da adulti, i loro animali allevati da mamme poco accudenti risultavano più ansiosi, ma non si può dire se ci sia un rapporto causa-effetto tra i due fenomeni.

E poco si può dire anche sul significato di questi risultati per la nostra specie. Gli autori ricordano su Science che le loro osservazioni sono in linea con le conclusioni di alcuni studi che hanno indicato un’associazione tra elevati livelli di stress durante l’infanzia, per esempio in seguito a traumi, e variazioni nella metilazione di retrotrasposoni o altri geni coinvolti nel controllo di retrotrasposoni, ma è chiaro che si tratta di un campo di indagine ancora tutto da esplorare. La stessa conclusione alla quale era arrivato anche un piccolo studio pubblicato qualche mese fa su Development and Psychopathology sui “correlati epigenetici del contatto neonatale negli esseri umani”. Studio che conferma l’esistenza di differenze significative nei livelli di regolazione epigenetica del DNA di bambini di 4 anni che da neonati erano stati molto coccolati (presi in braccio, accarezzati, massaggiati) rispetto a coetanei che erano stati poco coccolati, senza tuttavia chiarire le conseguenze precise di queste differenze.

In attesa di ulteriori dettagli, l’insegnamento che gli esperti di psicologia perinatale consigliano ai neogenitori di portare a casa da questo tipo di studi è molto semplice: non avere paura di coccolare i bambini. Quando arriva un neonato, spesso parenti, amici e talvolta anche qualche esperto si affrettano a redarguire mamma e papà se tendono a coccolarlo “troppo”, prendendolo in braccio quando piange, portandolo in fascia o simili: “Non fatelo, altrimenti prende il vizio e non riuscirete più a metterlo giù!”. In realtà non ci sono prove che un accudimento molto “fisico” del proprio bambino possa provocare qualche danno. Anzi!

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance