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Ocean literacy: rendere i cittadini consapevoli dei problemi dell’oceano

Cosa significa fare ocean literacy? Vuol dire spingersi ancora più in là nel comunicare le minacce e i problemi ambientali che gravano sugli oceani del pianeta.

Nel dicembre 2017 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una proposta che ha istituito la decade delle scienze del mare per lo sviluppo sostenibile (2021-2030). Questo anche grazie al lavoro della Commissione Oceanografica Intergovernativa dell’UNESCO e alla crescente mobilitazione mondiale sul tema del mare. Abbiamo incontrato Francesca Santoro, funzionario UNESCO della Commissione Oceanografica Intergovernativa, per parlare con lei di ocean literacy.

L’ocean literacy è nata negli Stati Uniti come elemento in più rispetto ai programmi di educazione già esistenti nell’ambito delle scienze del mare. Crediti immagine: Pixabay

L’ocean literacy: si tratta di qualcosa di nuovo o è un nuovo modo di chiamare qualcosa che già esisteva?

Direi che entrambe le cose sono vere. L’ocean literacy è nata negli Stati Uniti come elemento in più rispetto ai programmi di educazione già esistenti nell’ambito delle scienze del mare. Si tratta di un insieme di strumenti che ha permesso di rendere coerenti tutte le attività che si erano svolte fino a quel momento. Con questo nuovo approccio, si sono inglobate quelle attività che venivano già svolte a livello internazionale, sotto l’egida dei sette principi fondamentali dell’ocean literacy, che sono milestone sulle quali è possibile sviluppare numerose attività educative e di comunicazione.

Com’è la situazione italiana, europea e americana sul tema?

In Italia si sono effettuate delle attività molto interessanti, a partire soprattutto dalla tematica della plastica in mare. Questo ha fornito un’ottima occasione per poi poter parlare di quello che riguarda più in generale il mare: nell’ultimo anno vi è stato un notevole incremento nelle attività italiane, perché siamo riusciti a creare una rete- denominata appunto Ocean literacy italia– che ha permesso di condividere le esperienze esistenti e di avviare delle attività comuni. Nel 2017, per la prima volta nella storia della giornata internazionali dell’oceano (8 giugno), nel nostro paese si sono svolte più di 30 eventi. Per quanto concerne l’Europa, le attività di educazione hanno avuto un’impennata dopo il 2012-2013, successivamente alla firma dell’accordo tra Unione Europea, Stati Uniti e Canada per un programma di ricerca scientifica riguardante l’Oceano Atlantico (Transatlantic research alliance). Tra le varie attività previste, molte riguardano l’ocean literacy.

Ci sono differenze tra l’approccio statunitense e quello europeo?

In America l’ocean literacy è per lo più collegata ad attività di educazione formale, ovvero ai programmi scolastici. In Europa il fenomeno sta assumendo caratteristiche differenti, che comprende le attività nelle scuole, progetti di citizen science, il coinvolgimento di tutti gli stakeholder coinvolti nel settore compresi gli attori del settore privato e i decision maker politici. L’ocean literacy, a livello europeo, è quindi intesa come un mezzo per tradurre la ricerca scientifica in una divulgazione e forme di engagement che prevedano diversi livelli, a seconda del tipo di attore che si vuole coinvolgere. Questo anche in relazione all’importanza crescente che la blue economy sta assumendo in ambito europeo.

Perché c’è stata questa differenza tra approcci europeo e americano?

Negli Stati Uniti la spinta è arrivata da un gruppo di ricercatori ed educatori che hanno iniziato a confrontarsi sul fatto che nei programmi scolastici ci fosse un’assenza totale all’educazione delle scienze del mare. In Europa stiamo invece assumendo un approccio globale di educazione al mare e alle sue problematiche, ovvero ci si chiede cosa possa fare il singolo –cittadino, impresa o attore politico- per affrontare queste questione.

Facciamo un passo indietro: com’è nata l’ocean literacy?

Alla fine degli anni Novanta, diversi educatori negli Stati Uniti hanno iniziato a confrontarsi con workshop online e webinar sulle tematiche. Parallelamente, si è registrata una spinta dall’alto, grazie all’approvazione di una serie di documenti da parte del Governo statunitense che evidenziavano la necessità di sviluppare una politica per la gestione dello spazio marino americano e, di conseguenza, l’esigenza di rendere maggiormente consapevoli i cittadini.

A dicembre l’Ufficio UNESCO Regionale per la Scienza e la Cultura in Europa ha indetto una prima conferenza internazionale sul tema per fare il punto sulla questione. Quali sono state le tematiche fondamentali di questo congresso? Che necessità sono emerse?

Abbiamo riunito più voci: non volevo fossero presenti solo ricercatori, ma abbiamo fatto sì che fossero presenti varie figure professionali, tra cui giornalisti, politici, educatori, attivisti. L’obiettivo era avere più prospettive possibili, non solo quelle scientifica e pedagogica. È emersa la necessità di avere un coordinamento internazionale, ma è essenziale sviluppare delle attività locali tarate sul rapporto che le persone hanno col mare, elemento che cambia di luogo in luogo. Tra i prossimi appuntamenti, ci sarà una conferenza regionale che si svolgerà in Giamaica e che riguarderà l’ocean literacy nell’area caraibica. Stiamo inoltre cercando di avviare una serie di attività di traduzione: online esistono molti materiali ma disposizione degli insegnanti, ma sono in inglese e questo spesso rappresenta una barriera.

Parlando di oceani oggi ci si focalizza soprattutto sul problema della plastica. A suo avviso, questo è un elemento positivo o abbiamo dimenticato altri problemi che affliggono i mari quali acidificazione e specie aliene?

La plastica è molto visibile, colpisce l’immaginario collettivo. Il pubblico, che non ha una formazione tecnica, per poter capire un problema ha bisogno di visualizzarlo. Molti studi confermano che le persone tendono ad allontanarsi da situazioni negative se non percepiscono che queste le riguardano. La plastica è qualcosa che ha a che fare con le nostre vite, invece è meno facile visualizzare concetti come le specie aliene. La plastica ci ha aiutato ad aprire gli occhi sul mare: fino a due anni fa nessuno parlava dell’oceano, oggi se ne parla continuamente.


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Sara Moraca
Dopo una prima laurea in comunicazione e una seconda in biologia, ho frequentato il Master in Comunicazione della Scienza della Sissa di Trieste. Da oltre dieci anni mi occupo di scrittura: prima come autore per Treccani e De Agostini, ora come giornalista per testate come Wired, National Geographic, Oggi Scienza, La Stampa.