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Gli effetti delle droghe d’abuso negli ambienti acquatici

Le sostanze stupefacenti finiscono nei fiumi, nei laghi o nel mare dagli scarichi urbani: gli scienziati stanno cercando di stabilire che conseguenze abbiano sugli organismi

Studiare le conseguenze dell’esposizione alle sostanze d’abuso degli organismi acquatici non è per nulla semplice: le droghe si ritrovano in concentrazioni relativamente basse e contribuiscono a formare un “cocktail” con altri inquinanti. Crediti immagine: Pixabay

APPROFONDIMENTO – Assumere droghe fa male alla salute, questo si sa. Gli effetti a breve e a lungo termine delle droghe d’abuso comprendono l’indebolimento del sistema immunitario, danni al fegato, al cuore e al cervello, rischi per il feto se assunte da una donna incinta, la comparsa di problemi comportamentali che vanno dalle allucinazioni all’aggressività. Le infinite conseguenze tossiche delle sostanze stupefacenti sono ben note al mondo della medicina, ma che dire degli effetti sugli altri organismi che vi entrano incidentalmente in contatto?

Il ciclo vitale delle sostanze d’abuso non termina con la loro assunzione. Come avviene con i farmaci che la maggior parte di noi assume, quotidianamente o saltuariamente, anche le droghe vengono metabolizzate dall’organismo e quindi escrete nelle urine e a volte nelle feci, entrando così nel circolo delle acque reflue. Queste ultime passano negli impianti di depurazione, che non sono sempre in grado di rimuovere del tutto le sostanze d’abuso e i loro metaboliti. Il risultato è che una parte finisce nei fiumi, nei laghi e nei mari, un problema grave soprattutto per gli ambienti soggetti anche ad altre minacce come quelli montani.

La diffusione delle droghe d’abuso nell’ambiente

È per questa ragione che le droghe sono comprese tra i cosiddetti “contaminanti emergenti“, sostanze biologicamente attive e di origine antropica dagli effetti ambientali non del tutto chiari, che hanno cominciato ad attirare l’attenzione degli scienziati negli ultimi vent’anni. Si tratta di una classe incredibilmente vasta di sostanze: oltre a droghe e farmaci ci sono i detergenti, i prodotti per la cura personale e i pesticidi di ultima generazione.

In questo panorama, le droghe non sono nemmeno tra i contaminanti più diffusi nell’ambiente acquatico. Gli scienziati dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, che studiano da oltre dieci anni la diffusione di queste sostanze nell’ambiente, hanno dimostrato nella loro ultima ricerca che, a fronte dei 6,5 chili di farmaci e 1,3 chili di disinfettanti e prodotti per la cura della persona, le droghe scaricate ogni giorno nella acque di Milano sono 400 grammi: una percentuale minima rispetto agli altri nuovi inquinanti riversati negli ambienti acquatici dagli scarichi urbani.

Le concentrazioni relativamente basse non sono comunque una buona ragione per ignorare i rischi che possono derivare dalla presenza delle droghe d’abuso negli ambienti acquatici, soprattutto per quanto riguarda gli ecosistemi. In parte perché, agendo su recettori molto conservati in natura, le droghe possono avere effetti psicotropi anche negli animali. Questo può non essere un rischio imminente, date  le basse concentrazioni rilevate; tuttavia, l’altra parte del problema è legata alla “pseudo-persistenza” delle sostanze d’abuso.

Si tratta di un aspetto da non sottovalutare: oppiacei, stimolanti, stupefacenti e simili sono utilizzati in modo continuativo e per alcuni il consumo è in crescita, come dimostra il report “Wastewater analysis and drugs: a European multi-city study“, pubblicato a marzo dall’European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction, l’agenzia UE di monitoraggio sul consumo e la diffusione delle droghe d’abuso.

Risultano così “pseudo-persistenti” negli ambienti acquatici. “Queste molecole non sono persistenti nel vero senso della parola, come i più conosciuti composti organici persistenti o POP (da Persistent Organic Pollutants), sostanze chimiche molto resistenti alla degradazione chimica e biologica”, spiega a OggiScienza Marco Parolini, ricercatore di ecologia all’Università di Milano e autore di alcuni tra i pochi studi sugli effetti delle droghe e dei loro metaboliti sugli organismi acquatici.

“Vengono tuttavia immesse in modo continuativo, per lunghi periodi di tempo, per cui se pure vanno in parte incontro a degradazione, le loro concentrazioni restano più o meno costanti nell’ambiente. Questo, insieme alla loro forte attività biologica, può causare una pletora di effetti tossici agli organismi che vi sono esposti”. Non solo. “L’utilizzo costante e il fatto che la loro degradazione, a opera di fattori biotici o abiotici, sia solo parziale” continua lo scienziato, “fanno sì che le loro concentrazioni negli ambienti acquatici possano aumentare nel corso del tempo”.

Gli studi degli effetti sugli organismi acquatici

Studiare le conseguenze dell’esposizione alle sostanze d’abuso degli organismi acquatici non è per nulla semplice. In parte perché le droghe si ritrovano in concentrazioni relativamente basse, in parte perché nell’ambiente contribuiscono a formare un “cocktail” con gli altri inquinanti, che possono interagire tra loro con effetti sinergici o agonisti, risulta molto difficile stabilire quale molecola sia responsabile di un determinato effetto tossico.

Parolini e i suoi colleghi ci stanno provando: nel loro ultimo studio, pubblicato a gennaio sulla rivista scientifica Environmental Pollution e condotto in collaborazione con i ricercatori dell’Istituto Mario Negri, hanno analizzato gli effetti della bezoilecgonina, il principale metabolita della cocaina, su Daphnia magna. Si tratta di un piccolo crostaceo molto impiegato negli studi di ecotossicità.

“Abbiamo saggiato concentrazioni simili a quelle ambientali e ne abbiamo analizzato gli effetti a livello biochimico e comportamentale su Daphnia“, spiega Parolini. I risultati hanno mostrato che l’esposizione alla bezoilecgonina induce l’insorgenza di stress ossidativo, che può danneggiare le macromolecole cellulari (come lipidi, proteine e DNA), impedendone il corretto funzionamento e rischiando di danneggiare gli organi. A livello comportamentale, gli animali tendono a nuotare di meno ma con movimenti più veloci e convulsi, fattori che indicano, in generale, uno stato di salute alterato. Inoltre, la diminuita attività di nuoto compromette la capacità dell’animale di approvvigionare il cibo necessario al suo sostentamento e alla sua riproduzione.

“In altri casi abbiamo condotto studi ancora più vicini alla situazione reale saggiando una miscela di sostanze d’abuso, concentrandoci su quelle più diffuse nell’ambiente: oltre alla cocaina e alla bezoilecgonina, sono state incluse nel mix l’anfetamina, la morfina (che può essere assunta da sola ma è anche un metabolita dell’eroina) e MDMA”. Gli studi, condotti un paio di anni fa su un altro organismo modello, la Dreissena polymorpha, un bivalve che vive in acqua dolce, avevano dimostrato come questa miscela sia in grado di indurre sia stress ossidativo sia danno genetico.

Il problema è che il danno su una singola specie può poi avere effetti a cascata su tutta la catena ecologica di cui l’animale fa parte. Almeno per ora, le concentrazioni delle droghe d’abuso negli ambienti acquatici non sono tali da rappresentare un rischio immediato. Tuttavia, questi primi studi, mettendo in evidenza gli effetti ai “livelli bassi” dell’organizzazione biologica (alterazioni enzimatiche e molecolari), rappresentano un indubbio campanello d’allarme per effetti più critici che le esposizioni continuative o l’aumento delle concentrazioni ambientali delle droghe d’abuso potrebbero causare.

Dove agire

Per evitare che le droghe d’abuso finiscano per contaminare gli ambienti acquatici, la soluzione più efficace sarebbe, ovviamente, evitarne il consumo. Ma anche ammesso che in un futuro un po’ utopico non vi siano più consumatori occasionali o dipendenti, come metterla con il resto della grande famiglia dei contaminanti emergenti?

“Dal punto di vista della salvaguardia ambientale, la soluzione più plausibile è monitorare l’efficienza di depurazione“, spiega Parolini. “Le droghe arrivano nell’ambiente acquatico a seguito dell’escrezione da parte dell’uomo o a smaltimenti illegali; la maggior parte delle acque reflue va ai depuratori, che però non sono progettati per rimuovere efficacemente queste molecole. Sebbene riescano a eliminarne una buona parte, per molte altre i tassi di rimozione sono ancora limitati; è per questa ragione che i contaminanti si riversano nelle acque. Dunque, un sicuro beneficio per l’ambiente sarebbe agire proprio sui depuratori migliorandone l’efficienza; questo vale per le droghe d’abuso ma anche per i composti farmaceutici e gli altri contaminanti”.

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.