SALUTE

Antibiotico-resistenza: gli ospedali amplificano il problema

Il nostro Paese è uno dei più problematici in Europa per lo sviluppo di resistenze agli antibiotici, peggio di noi c'è solo la Grecia. Ecco quali contromisure possono adottare le strutture ospedaliere e i cittadini

Uno dei motivi che porta l’Italia a essere tra i maggiori consumatori di antibiotici è che ogni anno nel nostro Paese si registrano tra le 450.000 e le 700.000 infezioni batteriche ospedaliere. Crediti immagine: Pixabay

SALUTE – L’Italia attualmente merita la maglia nera sul tema dell’antibiotico-resistenza, tanto che nel panorama europeo ci posizioniamo pure dietro la Romania e la Bulgaria, collocandoci penultimi. Le strutture ospedaliere sono i luoghi in cui il problema si amplifica di più, ed è lì che si può intervenire per arginare il fenomeno. Questo è il cuore dell’intervento di ieri mattina alla Biblioteca Angelica della capitale da parte di Gianni Rezza, epidemiologo e dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità. L’evento organizzato da MSD Italia, in cui sono intervenuti oltre una decina di relatori tra medici e rappresentanti delle istituzioni, ha affrontato un tema noto e antico: i batteri possono adattarsi ed evolvere fino a sopravvivere all’azione degli antibiotici. L’abuso di questi farmaci ha generato una pressione selettiva che ha accelerato il fenomeno, al punto che oggi il problema ha assunto dimensioni globali e preoccupanti.

L’anno scorso lo European Center for Disease Control (ECDC), in occasione dell’ultima visita in Italia, ha detto che per il nostro Paese resta ancora molto da fare, dipingendo una situazione sostanzialmente negativa. Tuttavia, al posto di una visione pessimistica del futuro, vale la pena di adottare un atteggiamento propositivo. Infatti Paesi come il Regno Unito, l’Olanda e altri Stati dell’Europa settentrionale hanno dimostrato che lo scenario, che attualmente desta non pochi timori, è ancora reversibile.

Ma come mai gli ospedali rappresentano una parte importante del problema? L’ambito ospedaliero è il contesto in cui più spesso si fa utilizzo di antibiotici, e non a caso sono proprio le strutture sanitarie i luoghi in cui – insieme ai ricoveri per anziani – si generano le resistenze. I pazienti con cui ci si confronta nelle strutture sanitarie, infatti, stanno diventando via via più fragili e anziani, dunque c’è sempre più spesso bisogno di terapie antibiotiche. Pazienti soggetti a trapianti, o che fanno ricorso alla chemioterapia, o che subiscono procedure invasive, o che fanno ricorso alla chirurgia protesica devono essere trattati con antibiotici, come ha ricordato il direttore scientifico di SIMIT Massimo Andreoni. E ciò comporta un uso sistematico di questi farmaci e dunque accelera il processo di sviluppo delle resistenze.

Uno dei motivi che porta l’Italia a essere tra i maggiori consumatori di antibiotici è che ogni anno nel nostro Paese si registrano tra le 450.000 e le 700.000 infezioni batteriche ospedaliere (tra polmoniti, infezioni delle vie urinarie e delle ferite chirurgiche, per citare le principali), ha ribadito la presidentessa di MSD Italia Nicoletta Luppi. Eliminare del tutto queste infezioni è impossibile, ha chiarito il vice presidente di SITA Matteo Bassetti, poiché un 3-4% di casi è fisiologico. Nessuno al mondo per ora sta riuscendo ad andare sotto questa soglia, ma abbassare di molto l’attuale incidenza è un obiettivo che si può perseguire attraverso la prevenzione.

Negli ospedali un batterio particolarmente problematico è Klebsiella pneumoniae, presente soprattutto nei reparti di terapia intensiva, che è resistente ad antibiotici come cefalosporine e carbapenemi. Oggi Klebsiella viene trattato con antibiotici relativamente desueti come la colistina (che proprio per questo è spesso citato come un salvavita), ma alcuni ceppi del batterio hanno già mostrato di poter resistere anche a questo farmaco. Altri esempi significativi sono Streptococcus pneumoniae, che ad esempio in Campania nel 40% dei casi resiste agli antibiotici più comuni, ed Eschirichia Coli, che resiste agli antibiotici chinolonici quasi nella metà dei casi.

Il contesto del nostro Paese, sia secondo il parere dell’ECDC sia da quanto emerso in occasione dell’incontro di ieri, è eterogeneo. Accanto a realtà virtuose in cui l’attività di contrasto alla antibiotico-resistenza è una pratica consolidata, esistono altre strutture in cui queste misure preventive sono disorganizzate, poco efficaci o del tutto assenti. Da qui la decisione, da parte del Ministero della Salute, di realizzare un Piano Nazionale di Contrasto all’Antibiotico Resistenza (battezzato PNCAR), in modo da favorire l’uniformazione delle pratiche e il coordinamento tra diversi enti e strutture, diffondendo una cultura generale di gestione del fenomeno anche all’interno delle direzioni ospedaliere.

Protocolli sanitari e norme di buon senso possono aiutare tutti, dai medici ai singoli cittadini, ad arginare un trend che per ora pare inarrestabile. Cambiare i guanti prima di eseguire qualsiasi procedura medica su un paziente, ad esempio, dovrebbe essere un’abitudine a cui non concedere eccezioni. Lo stesso vale per il lavaggio delle mani: un’operazione tanto scontata quanto fondamentale per limitare la diffusione delle infezioni microbiche. Altro aspetto cruciale è l’applicazione in tutti i contesti della cosiddetta Stewardship Antimicrobica, cioè la prescrizione degli antibiotici solo quando sono davvero necessari: ciò consente di preservare per più tempo possibile l’efficacia degli antibiotici attualmente a disposizione.

Azioni come quest’ultima richiedono però alcune condizioni favorevoli a livello di organizzazione del sistema sanitario, fra cui la presenza in tutti gli ospedali della figura professionale dell’infettivologo (che più di tutti gli altri medici dovrebbe poter gestire l’utilizzo delle terapie antibiotiche), nonché del reparto di microbiologia e dei relativi laboratori, purtroppo spesso sacrificati in favore di altri reparti. Oggi, infatti, l’abuso e il misuso di antibiotici non riguarda solo i fenomeni di auto-prescrizione da parte dei comuni cittadini, ma anche e soprattutto gli ospedali, dove troppo raramente si applica la Stewardship Antimicrobica e si adoperano antibiotici anche in situazioni in cui sono inutili o addirittura controindicati. Tra le altre azioni preventive possibili per contenere la diffusioni delle infezioni e dunque l’uso di antibiotici ci sono l’isolamento dei pazienti infettati con germi multiresistenti, le azioni volte a ridurre il sovraffollamento delle corsie, il ricovero dei pazienti in stanze singole o il rispetto di un’adeguata distanza reciproca, l’arruolamento di un numero adeguato di operatori sanitari soprattutto nei reparti di ematologia e terapia intensiva.

In termini di governance, non tanto nazionale ma globale, un elemento fondamentale è l’aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo, perché solo con la continua introduzione di nuovi antibiotici (che una volta disponibili andrebbero prescritti con parsimonia) si può realmente contrastare il fenomeno delle resistenze, che evolutivamente è inevitabile.

C’è poi l’aspetto comunicativo, ossia l’attività di disseminazione delle informazioni che istituzioni e associazioni stanno iniziando a svolgere per sensibilizzare anzitutto i medici, poi i media e infine i cittadini. Un’azione di questo tipo può portare alla diffusione della cultura dell’immunizzazione attiva, che riguarda sia i vaccini come misura preventiva sia tutti i sistemi di prevenzione oncologica.

Infine, non va dimenticato il cosiddetto approccio One Health: anche se in Italia il sistema sanitario non è centralizzato e il Ministero si limita a un ruolo di programmazione e monitoraggio, resta di importanza strategica riuscire a coinvolgere tutti gli stakeholder e tutti i cittadini in una linea d’azione comune, in un’ottica più ampia possibile. Oltre alla strutture sanitarie, occorre ad esempio considerare anche la sanità animale, riducendo l’uso degli antibiotici negli allevamenti attraverso un lavoro di miglioramento delle condizioni igieniche.

Oggi molti medici e cittadini considerano l’antibiotico-resistenza come un problema altrui: i medici tengono le pasticche sempre a portata di mano nel taschino del camice, i farmacisti a volte li consigliano anche a chi non ne avrebbe bisogno, le persone ne tengono una scorta in casa. Gli antibiotici invece sono farmaci fragili, che vanno gestiti bene e vanno usati solo quando necessario, pena la perdita della loro efficacia per tutta l’umanità. Oggi conviviamo con due paradossi: il primo, come ha raccontato Matteo Bassetti, è che gli antibiotici più utili e nuovi sono anche quelli più difficili da impiegare poiché sono limitati per ragioni di budget e di autorizzazioni, mentre quelli più obsoleti sono più economici e per questo vengono prescritti fin troppo. Il secondo, citato da Francesco Menichetti, presidente di GISA, è che come società abbiamo mediamente un’eccessiva diffidenza nei confronti dei vaccini e un’eccessiva confidenza nell’uso di antibiotici, mentre sarebbe auspicabile una posizione più equilibrata.

Segui Gianluca Dotti su Twitter

Leggi anche: Quando gli antibiotici diventano tossici

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Gianluca Dotti
Giornalista scientifico freelance. Sui social sono @undotti