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Vero o falso? Come si distingue un capolavoro dall’opera di un falsario

Servono scienza e non solo per autenticare un dipinto. Conoscenza dell’autore, del suo periodo, delle tecniche che utilizzava e alcune delle principali analisi fisiche a disposizione.

ANNO DEL PATRIMONIO CULTURALE – Raccontare le storie dei singoli e dei gruppi impegnati nella sfida della conservazione e della fruizione dell’arte è uno degli obiettivi dell’Anno Europeo per il Patrimonio Culturale indetto nel 2018. Ma prima di apprezzare un’opera d’arte bisogna poter dire che lo è davvero, e in questo sono impegnati moltissimi musei, laboratori, scienziati: come si capisce se quello che abbiamo di fronte è il capolavoro di un pittore famoso o l’abile contraffazione di un falsario?

Cos’è un falso? Dall’antica Roma ai nostri giorni
Se volessimo “datare” il fenomeno del falso artistico, dovremmo spingerci tra il secolo I a.C. e il I d.C., nell’Oriente ellenistico e in Magna Grecia: il ricco mercato romano ambiva ad accaparrarsi le ammirate opere greche, ritenute insuperabili, dando vita a un fenomeno che esiste ancora oggi. Nel Medioevo ferveva la falsificazione di gemme, documenti e reliquie: si ricercava quanto potesse accogliere in sé e rappresentare simbolismo, credenze culturali e immobilizzazione del patrimonio.

Il mondo dell’arte classica torna a suscitare interesse anche in epoche successive, fino a raggiungere l’apice con l’avvento del Rinascimento. La passione umanista per la cultura greca e latina incrementò e incoraggiò l’attività dei falsari: falsi codici, vasi o sculture riproducenti (in maniera frammentaria per accrescere la verosimiglianza) i busti degli antichi filosofi o degli uomini illustri. Più che a scopo di frode, però, creare copie di opere antiche serviva a evocare un passato glorioso: gli artisti gareggiavano con gli antenati per emularne i risultati. Ancora i falsi non avevano il significato odierno.

Il 1735 segna una svolta per il mercato dell’arte: in Inghilterra viene promulgata la prima legge sul diritto d’autore, che, oltre a proteggere l’autore di “un’opera dell’ingegno” e il consumatore-fruitore, creò lo spartiacque tra ciò che era vero e aveva un valore, e ciò che non lo era e quindi ne era privo. Si iniziò a parlare di falsificazione, differenziandola dall’imitazione, e se prima ai falsari spettava solo una condanna morale (nel peggiore dei casi), a questo punto divennero soggetti a una pena effettiva.

L’Ottocento è denominato “la grande epoca dei falsi”. La diffusione del collezionismo in tutte le classi sociali spinse i mercanti d’arte alla ricerca continua di nuovi soggetti da far falsificare. Tutto questo “si concluse” negli anni trenta del secolo scorso: tecnicamente divenne sempre più difficile eseguire le contraffazioni, trovare i pigmenti e i materiali utilizzati nel passato e la falsificazione non era più un atto che suscitava ammirazione, ma da incriminare. Michelangelo fu lodato, ma Van Meegeren (1889 – 1947), falsario di Vermeer, fu incarcerato.

Tuttavia, più che dire che si concluse del tutto, è più corretto affermare che gli artisti uscirono definitivamente dall’ambigua posizione di imitatori o falsari veri e propri. Nacque però una generazione di specialisti, ben più agguerriti di quelli del secolo precedente, sempre più raffinati nella contraffazione di opere d’arte, che vivevano realizzando falsi di assoluto pregio dal punto di vista formale, della fattura e della capacità imitativa, difficili da riconoscere nonostante l’aumento degli strumenti a disposizione della critica. Il progresso, come sempre, ha pregi e difetti.

Vero o Falso?
Il proliferare di falsi tra il XVI e il XVII secolo fu combattuto con l’osservazione delle peculiarità stilistiche dei singoli autori: ognuno ha un proprio modo caratteristico di usare il colore e di distribuirlo, dare la pennellata, o di realizzare i capelli, la barba, gli occhi; tratti specifici che vengono studiati con attenzione ancora oggi. Si valutano principalmente lo stile, il soggetto, i materiali e le condizioni dell’opera. Questo può essere utile per un’indagine preliminare: un’approfondita conoscenza dell’autore e degli strumenti in uso a quell’epoca è d’obbligo.

Ogni artista ha un modo peculiare di stendere il colore, che gli esperti possono analizzare per stabilire se un opera sia dell’autore a cui viene attribuita. (Cortesia immagine: Pixabay)

La firma purtroppo non è sufficiente, può essere facilmente contraffatta: per verificare se sia autentica la si confronta con altre, si controlla che sia “omogenea” alla pittura sottostante, che abbia subito un invecchiamento consistente a quello del quadro e che non sia penetrata in eventuali crepe del colore, come se fosse stata aggiunta successivamente. Una firma falsa, comunque, non comporta automaticamente la non autenticità della tela: ci sono casi di firme aggiunte dai proprietari per rendere più facilmente vendibile l’oggetto in loro possesso, autentico ma senza “autografo”.

La tela, la craquelure e il colore
Un importante indicatore sull’autenticità delle tele si può trovare girandole e guardandone il retro. L’origine della pittura su tela si perde nel passato, ma ebbe buona diffusione nel XVI secolo, soprattutto per gli stendardi, più comodi e leggeri da trasportare dipinti su questo supporto, invece che su tavole di legno. Le prime pitture da cavalletto su tela vennero eseguite su tele di lino molto sottili, sostituite successivamente da quelle di canapa, tessute a spina di pesce. Nel Cinquecento i piccoli tratti della pittura a tempera vengono sostituiti dalle spesse pennellate della pittura a olio, su queste tele di struttura grossolana e ruvida.

Dalle trame piuttosto larghe del XVII secolo si passò a tessuti di canapa più sottili e fitti, resi ancora più regolari dall’avvento dei telai meccanici. Col XIX secolo si diffusero le preparazioni industriali e tele di diversi tipi. Le nuove macchine permettevano la produzione di stoffe superiori ai quattro metri, mentre dal XVI al XVIII secolo la misura dei telai, di circa un metro, era un limite per l’altezza del tessuto: per ottenere tele di grandi dimensioni era necessario cucire insieme diversi pezzi. Se quindi il supporto non fosse conforme all’epoca alla quale dovrebbe appartenere il quadro, potrebbero sorgere dubbi sulla sua autenticità. La presenza di cuciture, invece, depone a favore: possono sembrare un difetto estetico del dipinto, ma è difficile che un falsario abbia scelto di usarle. La tessitura con fili uniformi è tipica delle produzioni industriali, se vi è significativa differenza nei diametri invece si tratta di una creazione artigianale.

La tela non è un materiale indeformabile: per compensarne l’allentamento, legato al passare del tempo, la si schiodava dal sostegno, la si ritendeva e fissava nuovamente. Nell’operazione spesso si sostituiva il telaio originale (con gli angoli inchiodati e quindi fisso, anche se lo stato di conservazione non lo richiedeva) con uno moderno, con cunei di legno situati negli angoli finalizzati a controbilanciare il rilassamento del tessuto. Bisogna fare attenzione, però, con la compensazione: il rischio è quello di creare una tensione eccessiva nelle parti angolari, rovinando anche la superficie pittorica. Se invece l’inchiodatura perimetrale e il telaio sono originali, possono fornire un’indicazione utile: i segni lasciati dai chiodi lungo i margini della tela sono infatti difficilmente riproducibili, e il legno è databile.

Un’analisi dettagliata della superficie del dipinto può evidenziare la presenza di craquelure, ovvero di un reticolo di screpolature e fessurazioni che si forma sulle vernici, in maniera più marcata nelle aree di colore chiaro, caratterizzate da un’inferiore quantità di legante per mantenere il potere riflettente dei pigmenti, meno elastiche e più facili a fessurarsi. Le cause del fenomeno possono essere diverse, ma il fattore principale è proprio la perdita di elasticità della superficie pittorica che, non riuscendo più ad adattarsi alle dilatazioni e contrazioni della tela, provocate dalle variazioni dell’umidità dell’aria, finisce per cedere.

Per riprodurla i falsari ricorrono a diverse tecniche: applicare uno strato di colore a essiccazione rapida su una pellicola che asciuga lentamente, per creare delle crepe artificiali col “ritiro” del colore, è una delle possibilità. Questa craquelure però è molto più irregolare e dentellata di quella che si riscontra nei dipinti antichi. Viene anche ricreata con sbalzi caldo/freddo, col passaggio rapido bagnato/asciutto, dipinta, disegnata, incisa: se a occhio nudo può sembrare autentica, un’analisi con lente di ingrandimento o microscopio svela il trucco. Se ci si imbatte in un’opera che presenta craquelure autentica e artificiale, si tratta di un falso antico.

Craquelure sulla Gioconda. (Cortesia immagine: Wikimedia Commons)

Una particolarità dei colori utilizzati nei secoli passati è il contenuto di un’elevata percentuale di impurità: questo contribuiva a renderli più “morbidi” e distinguibili da quelli moderni. I pigmenti usati non erano puri infatti, ma contenevano particelle di altre terre: nel bianco per esempio erano presenti anche granelli marroni, gialli, neri, nel rosso impurità bianche, marroni, nere… I primi bianchi venivano ricavati da terre chiare, poi da ossidi di piombo, zinco e stagno che, mischiati ai leganti, davano origine a tonalità più o meno grigie: perciò un bianco troppo brillante può essere indice di un restauro o di contraffazione. Anche il giallo può risultare molto utile: i suoi pigmenti sono in gran parte instabili, perciò un giallo vivo in un quadro di quattro secoli è un campanello d’allarme.

Importanti sono anche i chiodi: devono essere conformi alla tecnica di preparazione, che, prima dell’inizio dell’Ottocento, avveniva con il martello.

La scienza in aiuto
L’opera d’arte è materia, prima ancora d’essere messaggio: ciò significa che dove le conoscenze storiche e artistiche non riescono ad arrivare, può venir loro incontro la scienza. Utilizzare metodi scientifici per autenticare un’opera è un’impresa a più livelli. In più, un’analisi potrà soltanto dirci che un dipinto è un falso, ma non il contrario: qualsiasi indagine possiamo compiere non darà mai l’assoluta certezza che si tratti davvero di un opera di un determinato autore, anche se potrà renderlo ragionevolmente probabile. La prima linea di operazioni consiste nell’utilizzo di tecniche di imaging non invasive, ovvero che non danneggiano l’opera né prevedono prelievo di campioni.

L’utilizzo dei raggi UV, tramite la lampada di Wood, dà la possibilità di sfruttare il fenomeno della fluorescenza ultravioletta, percepibile sia all’occhio umano sia registrabile fotograficamente. Col passare degli anni pitture e vernici sviluppano composti chimici fluorescenti che, quando irradiati con questo tipo di lunghezze d’onda, mostrano aree luminescenti. Eventuali macchie scure stanno a indicare ritocchi e restauri.

Il microscopio ottico permette di vedere anche i minimi dettagli sulla superficie di un’opera, rendendo le imperfezioni o i tentativi di imitazione ancora più visibili, o di trovare impronte o parti di esse sulla tela – in questo e nello studio dei passaggi di proprietà l’analisi forense ci viene in aiuto. I raggi X consentono di scrutare al di sotto della superficie del dipinto, in particolare rivelando materiali metallici o non organici. Si possono scoprire ripensamenti dell’artista, o addirittura composizioni abbandonate su una tela poi riutilizzata. In radiografia i falsi, come tutte le copie, appaiono spesso piuttosto trasparenti e uniformi, essendovi solo la preoccupazione di imitare la superficie visibile del dipinto, lavorando con cautela, ma senza spontaneità, senza ritocchi o ripensamenti e col pennello poco carico di colore.

In più, alcuni pigmenti hanno una datazione precisa che offre un utile discrimine: prima del 1910, per esempio, il pigmento di base per il bianco utilizzato per diluire e creare vari colori conteneva carbonato di piombo, quindi un quadro precedente a quell’anno senza piombo sarà verosimilmente un falso.

La riflettografia a raggi infrarossi è un altro modo per vedere al di sotto dello strato di pittura. Utilizza radiazioni con una lunghezza d’onda diverse rispetto ai raggi X – più lunghe -, per cercare disegni preparatori o restauri successivi. Permette inoltre di studiare più attentamente la profondità della craquelure e il suo andamento, che – se autentica – deve formare un pattern perpendicolare alle linee radiali di tensione che si formano negli angoli della tela.

Le tecniche invasive
A volte i metodi non invasivi basati sull’uso della luce non bastano per autenticare un’opera, perciò può essere necessario prelevare piccoli campioni dalla superficie del dipinto per analizzare gli elementi in essi contenuti. Nel caso in cui le molecole individuate non facessero parte dei materiali dell’epoca utilizzati in campo artistico, si tratta di contraffazione.

La microscopia Raman è un po’ un ibrido dal punto di vista dell’invasività: non essendo influenzata dalla presenza del vetro può essere compiuta anche in situ, senza rimuovere il vetro protettivo, ma spesso viene effettuata su campioni di ridottissime dimensioni, prelevati con un bisturi oftalmologico. È basata sull’effetto Raman, che prevede che la radiazione venga diffusa in piccola parte anche in maniera anelastica. Può riconoscere differenti pigmenti anche se danno colorazioni simili e determina che un quadro è stato dipinto a partire da una certa data (con la tolleranza di alcuni anni), in base alle molecole che individua nei pigmenti: viene utilizzata per trovare anacronismi, ovvero si cercano pigmenti che nel periodo in cui si pensa sia stata realizzata la tela non erano ancora disponibili.

Potrebbe sembrare curioso, ma i circa 2000 test nucleari che ci sono stati tra il 1945 e il 1963 forniscono un aiuto all’analisi delle opere d’arte: queste esplosioni, infatti, hanno provocato la diffusione su tutto il Pianeta di piccole quantità di isotopi radioattivi come il cesio-137, il carbonio-14 e lo stronzio-90. Questi isotopi hanno contaminato il suolo, compresi il lino e l’olio di semi da esso ricavato, ampiamente utilizzato nella produzione delle moderne vernici. Perciò, la pittura ottenuta dopo il 1945 dovrebbe contenere questi elementi, che possono essere individuati con uno spettrometro di massa.

A onor dei falsari va detto che, in ogni epoca, hanno saputo adattarsi ai gusti del pubblico e del mercato, ricreando esattamente quello che i compratori più desideravano, facendo evolvere le proprie tecniche insieme ai mezzi che tentavano di smascherarli.

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Giulia Negri
Comunicatrice della scienza, grande appassionata di animali e mangiatrice di libri. Nata sotto il segno dell'atomo, dopo gli studi in fisica ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” della SISSA di Trieste. Ama le videointerviste e cura il blog di recensioni di libri e divulgazione scientifica “La rana che russa” dal 2014. Ha lavorato al CERN, in editoria scolastica e nell'organizzazione di eventi scientifici; gioca con la creatività per raccontare la scienza e renderla un piatto per tutti.