SALUTE

Diabete, anche l’inquinamento tra i fattori di rischio

Non solo cattive abitudini alimentari, stile di vita sedentario e obesità: ridurre l'inquinamento atmosferico potrebbe diminuire i numeri della malattia

SALUTE – È quanto afferma uno studio condotto dalla Washington University di St. Louis e pubblicato sulla rivista Lancet Planetary Health. La ricerca suggerisce l’idea che una riduzione dell’inquinamento potrebbe aiutare a diminuire la frequenza del diabete, che oggi colpisce più di 420 milioni di persone in tutto il mondo. Lo studio mostra, inoltre, come la connessione tra i due fattori si manifesti anche a concentrazioni di inquinanti oggi considerate sicure dall’OMS e dall’EPA, l’agenzia governativa ambientale statunitense (Environmental Protection Agency).

Il meccanismo che lega diabete e inquinamento non è ancora chiaro ma si pensa che possa agire riducendo la produzione di insulina e stimolando l’infiammazione. Crediti immagine: Pixabay

Per valutare la qualità dell’aria, i ricercatori hanno analizzato la concentrazione di PM2,5, il particolato atmosferico formato da particelle di diametro inferiore ai 2,5 µm. È dimostrato che queste particelle possono entrare nei polmoni e attraversare il flusso sanguigno, contribuendo allo sviluppo di malattie cardiovascolaritumori e malattie renali. Nel caso del diabete, il meccanismo non è ancora chiaro ma si pensa che possano agire riducendo la produzione di insulina e stimolando l’infiammazione.

Il gruppo di ricerca dalla Washington University, in collaborazione con il Veterans Affairs’ Clinical Epidemiology Center, ha indagato la relazione tra particolato e rischio di diabete analizzando i dati che riguardavano 1,7 milioni di veterani degli Stati Uniti, le cui condizioni mediche erano state seguite per otto anni e mezzo. I ricercatori hanno incrociato questi dati con quelli ambientali forniti dal sistema di monitoraggio dell’EPA e dai satelliti della NASA. Hanno quindi testato diversi modelli statistici, utilizzando come controllo alcuni fattori non associati al diabete, come ad esempio la concentrazione di sodio presente nell’aria, e fattori clinici non associati all’inquinamento, come le fratture degli arti inferiori. Dopo aver eliminato le associazioni casuali, hanno quindi elaborato un modello per valutare il rischio di sviluppare diabete a diversi livelli di inquinamento e hanno combinato  questo modello con i dati ricavati dal Global Burden of Disease study (lo studio condotto su scala mondiale che valuta distribuzione, fattori di rischio e impatto delle patologie in termini di mortalità e disabilità).

In questo modo, è stata ottenuta una stima del numero di casi di diabete e il numero di anni di vita persi (DALYs, disability-adjusted life years) che potrebbero essere dovuti all’inquinamento: nel 2016 si tratterebbe di 3,2 milioni di nuovi casi, il 14% del totale. Gli anni di vita persi sarebbero 8,2 milioni in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, paese in cui è stata svolta la ricerca, i nuovi casi sarebbero stati 150.000 e gli anni di vita sana persi 350.000. Secondo i ricercatori, i paesi più a rischio sono quelli che hanno meno risorse per elaborare misure di mitigazione ambientale e politiche adeguate, come ad esempio India, Afghanistan, Papua Nuova Guinea e Guyana.

Negli Stati Uniti, la soglia accettata per le PM2,5 è pari a una concentrazione di 12 microgrammi per metro cubo di aria, un valore simile a quello raccomandato dall’OMS (10 µg/m3). Ma secondo i ricercatori questo limite non è sufficiente a proteggere la popolazione dal rischio di sviluppare diabete, rischio che si osserva già a concentrazioni pari a 2,4 µg/m3. In un campione di veterani esposti a concentrazioni comprese tra 5 e 10 microgrammi, il 21% di essi ha sviluppato la malattia: quando la concentrazione è aumentata (tra l’11,9% e il 13,6%), la percentuale di veterani diabetici è salita al 24%. Un aumento del 3% corrisponde a 5000-6000 malati in più ogni 100.000 persone. Secondo Ziyad Al-Aly, autore della ricerca, è importante evidenziare questo aspetto perché molte lobby industriali sostengono che i limiti attuali siano troppo stretti e debbano essere allentati: lo studio, al contrario, suggerisce che i livelli non siano ancora sufficienti e dovrebbero essere più rigidi. In Italia, il limite fissato per legge è pari a 25 µg/m3.

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Francesca Camilli
Comunicatrice della scienza e giornalista pubblicista. Ho una laurea in biotecnologie mediche e un master in giornalismo scientifico.