AMBIENTE

Rallenta, si arresta, forse riparte. Ciò che (non) sappiamo sulla Corrente del Golfo

Un nuovo studio, pubblicato su Nature, propone uno scenario differente circa l'arresto della Corrente del Golfo.

AMBIENTE – Dal colossal hollywoodiano The day after tomorrow al più intrigante romanzo Il quinto giorno, la corrente del Golfo è una dei protagonisti immancabili di quel filone della fantascienza che cavalca le catastrofi ambientali, spesso innescate dall’uomo stesso. Nello scenario più frequente, il repentino arresto di questa corrente calda che dal Golfo del Messico risale l’oceano Atlantico lambendo e mitigando il clima dell’Europa settentrionale, trasforma in un batter d’occhio queste regioni in inferni siderali. L’innalzamento del mare e gli tsunami cancellano le metropoli costiere, presto ammantate da una coltre glaciale da cui, scenograficamente, fanno capolino le rovine più maestose della nostra civiltà. A seguire, le conseguenze si allargano all’intero pianeta: quella del Golfo è parte integrante del vasto sistema di correnti noto come Capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (o per praticità con l’acronimo inglese AMOC), tra i principali ‘nastri trasportatori’ di energia termica dai tropici al polo nord e viceversa.

I due studi di aprile

Insomma, un’apocalisse in piena regola che tuttavia si basa su un dato incontrovertibile: il flusso dell’AMOC sta bruscamente rallentando. La certezza proviene da un complesso sistema di rilevamento disposto lungo il ventiseiesimo parallelo dell’oceano Atlantico che dal 2004 – medesimo anno in cui il film raggiungeva le sale cinematografiche e il romanzo le librerie – monitora in continuo la variabilità dell’AMOC. Due distinti studi, pubblicati sulla rivista Nature lo scorso aprile, hanno tentato di contestualizzare questa tendenza: rispetto al 1850, il flusso si è indebolito di circa il 15-20 per cento e attualmente è al suo minimo degli ultimi 1.600 anni. Sebbene i due gruppi di ricerca non concordino sulle cause – naturali o antropiche – né sulla data di inizio del fenomeno – 1850 o 1950 – l’attuale rallentamento del flusso è considerato un dato di fatto. Tanto da spingere alcuni studiosi a ipotizzarne un prossimo e completo arresto qualora la fusione della calotta artica prosegua agli attuali ritmi serrati.

Il nuovo studio

L’acqua calda è più leggera di quella fredda e l’acqua salata è più pesante di quella dolce: se le acque dell’Atlantico settentrionale diventano più dolci, quelle che provengono dal Golfo del Messico risultano ostacolate nel loro tragitto, finendo per sprofondare, invertire la rotta e tornare a sud. Un nuovo studio, pubblicato sempre su Nature da Xianyao Chen della Ocean University of China e Ka-Kit Tung dell’Università del Washington, propone tuttavia uno scenario differente. “La misurazione diretta della variabilità dell’AMOC è iniziata solamente nell’aprile del 2004 e da allora l’indebolimento è stato dieci volte più brusco del previsto. Molti ricercatori si sono fermati a questo aspetto, escludendo a priori che una risposta tanto rapida possa rientrare nelle dinamiche di un ciclo naturale” premette Tung, professore di Matematica applicata. La combinazione e il confronto di dati provenienti dai galleggianti della rete Argo e dalle navi oceanografiche, da satelliti  e dallo stesso sistema di rilevamento dedicato, suggerisce che almeno negli ultimi settant’anni l’AMOC sia stato interessato da un’alternanza di fasi rapide e fasi lente.

La corrente del golfo e la corrente nord atlantica. Crediti immagine: Wikimedia Commons

Secondo gli autori, nel loro insieme queste fasi potrebbero formare un sistema retroattivo che si autoalimenta: quando la corrente è veloce, un maggiore volume di acqua calda e salata raggiunge l’Atlantico settentrionale dove favorisce la fusione del ghiaccio artico. A lungo andare il surplus di acqua dolce ostacola e rallenta la corrente, l’Atlantico settentrionale torna a raffreddarsi e il ciclo riparte. In questi anni l’AMOC non starebbe dunque collassando, bensì transitando da una fase relativamente veloce – iniziata circa nel 1998 e ormai prossima alla conclusione – a una più lenta. “Finora abbiamo a nostra disposizione solamente un ciclo di misurazioni di profondità – premette Tung riferendosi ai dati provenienti dal sistema di rilevamento inaugurato nel 2004 – quindi non possiamo avere la certezza che questo comportamento sia effettivamente periodico. Però, sulla base dei fenomeni di superficie riteniamo sia molto probabile”.

E quindi?

La conclusione tratteggia uno scenario dal sapore agrodolce nel contesto dell’attuale cambiamento climatico. La velocità della corrente determina infatti la quantità di calore superficiale che viene sequestrata dalla superficie e trasferita nelle profondità oceaniche. “La buona notizia è che tutti gli indicatori dimostrano che il rallentamento dell’AMOC sta giungendo al termine e dunque non dovremmo allarmarci per il suo destino” riassume Tung. “La cattiva notizia è che la temperatura dell’aria rischia di aumentare ancora più rapidamente nei prossimi decenni”.

Segui Davide Michielin su Twitter

Leggi anche: Tundra e dintorni: il cambiamento climatico per 4 animali iconici

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Davide Michielin
Indisposto e indisponente fin dal concepimento, Davide nasce come naturalista a Padova ma per opportunismo diventa biologo a Trieste. Irrimediabilmente laureato, per un paio d’anni gioca a fare la Scienza tra Italia e Austria, studiando gli effetti dell’inquinamento sulla vita e sull’ambiente. Tra i suoi interessi principali vi sono le catastrofi ambientali, i fiumi e gli insetti, affrontati con animo diverso a seconda del piede con cui scende dal letto.