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RW Aur A, una stella ai raggi X

È inaspettatamente ricca di ferro, forse a causa della collisione tra due plantesimali, un fenomeno che non è mai stato osservato direttamente.

SCOPERTE – Nella vastità della sfera celeste vi sono due costellazioni molto interessanti per gli astronomi. Si chiamano Toro e Auriga e, in un certo senso, sono degli asili nido per migliaia di giovani stelle. Una, in particolare, attira da anni l’attenzione degli scienziati. È RW Aur A, fa parte di un sistema binario (ruota intorno alla sorella RW Aur B) e ha circa 10 milioni di anni, l’età in cui le stelle formano i pianeti.

Tutt’intorno ha un disco protoplanetario formato da gas e polveri. Ogni pochi decenni, RW Aur A perde luminosità per un certo periodo, per poi tornare a splendere. Che le stelle giovani varino l’intensità di luce è un fenomeno noto da una decina di anni, ma in RW Aur A si osserva in modo particolarmente marcato. Questo, unito all’aumento della frequenza e della durata del fenomeno, ha portato i ricercatori a indagarne la causa.

I risultati ottenuti analizzando un’osservazione ai raggi X lunga 14 ore sono stati pubblicati sull’Astronomica Journal, e hanno rivelato un’inaspettata sovrabbondanza di ferro. Da cosa dipende? Due sono le teorie che possono spiegare il dato e da una di esse derivano nuove importanti indicazioni sulla storia dell’evoluzione dei sistemi planetari.

Crediti immagine: NASA/CXC/M.Weiss

I ricercatori hanno potuto studiare RW Aur A grazie a Chandra, un telescopio a raggi X che, nonostante i suoi 19 anni, si è dimostrato perfettamente efficace nell’acquisizione di dati. In particolare, gli astronomi hanno analizzato la composizione della cosiddetta “colonna d’idrogeno”, una misura della densità del materiale che c’è tra noi e la stella, ossia quello che la luce deve attraversare prima di arrivare sulla Terra; quanto più è il materiale, tanto più verrà assorbita la luce.

L’idea di base è questa: se nella fase di minor luminosità della stella si registra una densità della colonna di idrogeno molto intensa, allora significa che il fenomeno è dovuto all’assorbimento, e che quindi c’è qualcosa che periodicamente assorbe la luce che arriva fino a noi.

“Direi che l’esperimento è riuscito alla grande, perché non solo ha confermato che la colonna d’idrogeno è maggiore quando la luce è meno luminosa, ma ha anche permesso di studiare l’abbondanza di alcuni elementi chimici, registrando così questa sorprendente abbondanza di ferro”, spiega a OggiScienza il dottor Mario Giuseppe Guarcello, ricercatore presso l’Osservatorio astronomico di Palermo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

L’osservazione ai raggi X di una stella, infatti, permette di studiarne l’atmosfera (la “corona”) e analizzarne la composizione chimica per alcuni elementi, ad esempio quanto ossigeno o silicio c’è rispetto all’idrogeno. “La sovrabbondanza di ferro trovata è davvero significativa, rappresenta la vera novità della pubblicazione”, commenta Guarcello.

Due teorie per un dato

Ma da cosa dipende questa quantità insolitamente alta di ferro? Secondo gli scienziati, sono due le teorie che potrebbero spiegarla. La prima è la cosiddetta “trappola a pressione delle polveri“. In profondità, nel disco protoplanetario, vi sono zone a pressione più o meno elevata; quelle in cui è più alta tendono a raccogliere materiale, fungendo da trappola a pressione.

Ma se una perturbazione, come l’avvicinarsi della seconda stella del sistema binario, raggiunge il disco, può sollecitare il materiale intrappolato e rimetterlo in orbita, oscurando la luminosità della stella e spiegando l’aumento della densità della colonna di idrogeno osservata dagli astronomi. “Se è questa la tesi corretta, tra un paio d’anni dovremmo registrare un riscaldamento locale in alcuni punti della stella, perché il materiale vi precipiterà sopra alla velocità di centinaia di chilometri al secondo, riscaldando il punto d’impatto”, spiega Guarcello.

La seconda spiegazione è ancora più affascinante. L’aumento di ferro potrebbe infatti essere dovuto allo scontro tra due plantesimali, praticamente degli embrioni di pianeti formatisi dall’addensamento delle polveri dei dischi protoplanetari. La densa nube di particelle rilasciata dallo scontro può infatti oscurare temporaneamente la luce, mentre il materiale viene “ingurgitato” dalla stella.

“Se questa interpretazione fosse corretta, sarebbe la prima volta che osserviamo in modo diretto una giovane stella mentre divora un pianeta”, commenta in un comunicato Hans Moritz Günther, astronomo del Massachusetts Insitute of Technology che ha condotto lo studio.

Anche gli scorsi eventi di diminuzione della luminosità potrebbero avere la stessa causa. “È ancora una teoria, ma se due corpi collidono, potrebbero trovarsi su un’orbita malsicura, per cui aumenta la probabilità che vi siano altre collisioni”, aggiunge Günther.

Sistemi planetari turbolenti

“È un bellissimo lavoro che offre delle prove interessanti di qualcosa che abbiamo già ipotizzato ma mai potuto osservare direttamente”, commenta Guarcello. “Secondo me, rappresenta l’evoluzione continua del nostro concetto di sistema planetario. All’inizio, quando abbiamo cominciato a studiare i pianeti extra-solari, pensavamo che il nostro sistema fosse il prototipo perfetto di ciò che avremmo potuto trovare”.

Non è affatto così: il nostro sistema solare “è molto ordinato, con i pianeti piccoli e rocciosi vicini al Sole, e quelli giganti lontani con i corpi ghiacciati; insomma, l’ordine assoluto. In realtà, teorie e osservazioni ora indicano che i sistemi planetari sono spesso molto turbolenti, ma non abbiamo mai potuto osservare direttamente questi movimenti e collisioni, perché sono processi molto lenti che richiedono milioni di anni”.

Un’indicazione interessante a suffragio di questa teoria è dato dal fatto che l’assorbimento osservato dagli scienziati nel caso di RW Aur A non cambia con la lunghezza d’onda. Significa che è presente materiale roccioso grande, nell’ordine dei metri, ad assorbire la luce. Se il materiale che interferisce con la luce fosse piccolo, si potrebbe pensare che sia associato al disco protoplanetario; al contrario, dimensioni maggiori si sposano bene con l’idea di una collisione.

I prossimi passi

Sono comunque necessarie ulteriori conferme che, sperano gli scienziati, verranno raccolte nel corso dei prossimi studi. Un parametro che si può tenere d’occhio è la quantità di ferro intorno alla stella: se a distanza di, ad esempio, un anno, rimane elevata, potrebbe indicare che la fonte che l’ha originato è grande.

“Le misure degli scienziati del MIT si sono spinte fin dove potevano. Ora servirebbe un supporto teorico, un modello in silico di un sistema come quello di RW Aur A e B”, commenta Guarcello. “E comunque questo è un ottimo target di studio per telescopi futuri come Athena, il telescopio a raggi X dell’ESA che sarà messo in orbita tra qualche decennio, oppure come JWST della NASA, che tra i suoi compiti principali ha proprio lo studio dei sistemi planetarie delle stelle giovani”.

Anche perché, sebbene la possibilità di studiare questi fenomeni dipenda anche dalla fortuna, “è certo più facile se si sa cosa cercare”, conclude il ricercatore.

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.