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Eritrea: ecco perché chi ci riesce scappa

Leva obbligatoria a tempo indeterminato, carcere preventivo, zero libertà di stampa e divieto di espatriare. Povertà e salute materno infantile fra le peggiori del mondo.

Donne eritree al lavoro per produrre la berberé, una miscela di spezie. Fotografia di David Stanley, CC BY 2.0

L’Eritrea è uno dei principali paesi di provenienza dei migranti che arrivano in Italia, quasi sempre via Libia. Da gennaio a fine agosto 2018 gli eritrei arrivati in Italia sono stati 3.027 sul totale dei 20.184 arrivi (dati Ministero dell’Interno).

Mentre c’è chi continua a urlare di riportarli indietro, nel giugno del 2018 la relatrice speciale delle Nazioni Unite sull’Eritrea Sheila B. Keetharuth riferiva al Consiglio per i Diritti Umani che “non ci può essere nessuna soluzione sostenibile per i flussi di rifugiati fino a quando il governo non si conforma ai suoi obblighi in materia di diritti umani”.

Per non parlare di chi nemmeno ci arriva in Libia, coloro – si stima si tratti di oltre il 10% della popolazione eritrea – che in fuga dal paese si ritrovano a vivere nei campi della vicina Etiopia o in Sudan, fenomeno a cui si assiste da 20 anni, da quando iniziò la guerra fra Eritrea ed Etiopia, conclusa realmente solo nel luglio 2018.

La guerra è finita, ma non basta

È vero, non c’è più la guerra in Eritrea, almeno non come la immaginiamo noi. Ma non basta la pace per garantire diritti. L’Eritrea, seppur sotto il nome di “Repubblica” sin dalla sua indipendenza dall’Etiopia nel 1991, è di fatto una dittatura. Con un presidente, Isaias Afewerki, in carica ininterrottamente da 25 anni e che ha stabilito che non è possibile ottenere un visto per espatriare legalmente. Con buona pace di chi chiede che gli eritrei “viaggino pure in aereo come noi”.

I ragazzi hanno l’obbligo del servizio militare, che non è paragonabile alla naja in vigore anche in Italia fino a 15 anni fa: in Eritrea si tratta di un sequestro a tutti gli effetti per un periodo indeterminato. Molti ragazzi riferiscono di aver dovuto servire per 10 anni.

Lo Human Right Watch parla di veri e propri lavori forzati, con una retribuzione bassissima per sostenere la propria famiglia. È eritreo Giona, uno dei ragazzi della Diciotti, che ha raccontato ad Annalisa Camilli di Internazionale perché è dovuto partire. “Mio padre era malato e la famiglia aveva necessità che io lavorassi: sono tornato a Tessenei, per un periodo ho lavorato in nero con dei commercianti sudanesi che facevano import-export, poi ho temuto che le guardie del regime di Isaias Afewerki mi trovassero e mi mettessero in prigione perché ero disertore e quindi ho deciso di scappare”, racconta.

Gli eritrei non hanno diritto di praticare una religione non riconosciuta dal governo e l’omosessualità è considerata illegale. È punibile con un massimo di tre anni di carcere o con la pena di morte. Non esiste inoltre una stampa libera. Nel 2001 sono stati chiusi gli ultimi giornali e arrestati i giornalisti più di spicco, che ancora oggi sono in detenzione pur non avendo mai subito un processo. Ci sono nove telefoni cellulari ogni 100 abitanti (dato CIA 2015) e solo l’1% della popolazione usa internet. Le ce connessioni sono comunque controllate dal governo.

Come riporta anche la stessa Keetharuth, è confermato che la detenzione in Eritrea è usata come punizione, anche nei confronti di bambini. Un esempio eclatante è stato il recente arresto e la detenzione del 93 enne Haji Musa Mohammed Nur, ex direttore della scuola Al Dia nel quartiere Akhria di Asmara. Haji Musa è morto nel marzo 2018, dopo essere stato detenuto per quattro mesi per aver rifiutato di applicare una direttiva governativa sul divieto agli studenti musulmani di indossare il velo o l’hijab.

In Eritrea qualsiasi forma di ribellione è preclusa, e se non puoi ribellarti è facile che provi almeno a scappare, anche se le conseguenze possono essere devastanti. Soprattutto per i bambini. Il rapimento, che per le donne significa stupro, è un grande business lungo il confine eritreo. Lo testimonia la storia di Ella, ragazza eritrea intervistata da The Guardian, rapita e violentata.

“Le cose stanno peggiorando” racconta sempre al Guardian Meron Estefanos, attivista e direttrice dell’Eritrean Initiative on Refugees Rights, che da oltre un decennio si batte per aiutare gli eritrei in fuga.”È diventato talmente frequente che noi giornalisti non ne parliamo nemmeno più. Per quelli che provano ad andare in Sudan, è quasi impossibile arrivare sani e salvi senza essere rapiti “. Secondo Estefanos vi sarebbero anche alcuni eritrei coinvolti nei rapimenti.

In tutto questo l’Eritrea rimane uno dei paesi più poveri del mondo. Il World Factbook della CIA aggiornato al 2017 riporta un PIL pro capite di 1.600 dollari annui. Quello italiano è di 38.100 dollari, quello americano di 59.900 dollari, quello francese di 43.800 dollari, quello inglese di 44.100 dollari e quello tedesco di 50.400 dollari.

La situazione socioeconomica

La malnutrizione è ancora un problema enorme che incide sulla salute materno infantile, principale causa di morte fra la popolazione. L’Eritrea è un paese arido e semi-arido colpito da siccità periodica e scarsità di cibo. L’80% della popolazione dipende dall’agricoltura di sussistenza per vivere. Si stima che la produzione alimentare interna riesca a soddisfare solo tra il 60 e il 70% del fabbisogno della popolazione.

Le cose sembrano andare sempre peggio: i dati del sistema Nutrition Sentinel Site Surveillance del Ministero della salute eritreo riportati da UNICEF indicano un aumento dei tassi di malnutrizione negli ultimi anni in quattro delle sei regioni del paese, con 22.700 bambini sotto i cinque anni affetti da malnutrizione acuta grave nel 2017 mentre la metà dei bambini eritrei vive un arresto della crescita.

Il 65% della popolazione è denutrita (dato OMS 2011 ) e 44 bambini su 1000 nati vivi muoiono prima dei 5 anni di età. Inoltre, solo 5 bambini su 100 hanno la fortuna di nascere in strutture baby friendly cioè dove viene fornita una qualche assistenza medica alla donna.

Secondo quanto riporta l’Organizzazione Mondiale della Sanità oltre la metà delle morti nel paese è dovuta a malattie infettive e a problemi che insorgono durante la gravidanza per la salute instabile della donna e nella primissima infanzia. Quattro donne incinte su 10 sono anemiche. Nel complesso “solo” il 6% delle morti in Eritrea è dovuta al cancro, dato che sicuramente fa riflettere.

Un dato positivo riguarda i vaccini con buona pace, anche qui, di chi sostiene che “i migranti ci portano le malattie”. Un risultato possibile solo grazie ad aiuti internazionali come quelli dell’UNICEF. Le stime dell’OMS per il 2017 parlano del 97% della popolazione attualmente vaccinata contro la tubercolosi; la stessa percentuale ha ricevuto la prima dose di vaccino trivalente contro difterite, tetano e pertosse e il 95% degli eritrei la terza dose.

Il 95% ha ricevuto la terza dose del vaccino per l’epatite B, il 93% è stato vaccinato con una prima dose il morbillo e ‘85% con una seconda. Il 95% degli eritrei ha anche ricevuto tre dosi di vaccino contro il rotavirus.

Ma soprattutto: l’Eritrea è uno dei paesi al mondo dove sono meno diffusi i servizi igienici e fonti di acqua sicura da bere. Il 57% della popolazione ha accesso all’acqua potabile (dato OMS 2015) Percentuali più alte si trovano solo in Kenya e Angola mentre l’85% della popolazione non ha la possibilità di usufruire di servizi igienici ed espleta i propri bisogni all’aperto.

Non mancano gli aiuti, come emerge anche dai vari rapporti annuale di UNICEF, in particolare rivolti a donne e bambini: a mancare sono le infrastrutture e prima ancora la libertà di denunciare questa mancanza. Su questo le Nazioni Unite sono cristalline: “Non è accettabile che continuiamo a vedere questi tipi di violazioni dei diritti umani continuano in Eritrea e il governo ha mostrato scarsa volontà nell’affrontare tali abusi” scrive Keetharuth.

“È vitale per il futuro del Paese che questi errori vengano messi a posto. Ciò significa creare istituzioni fondamentali basate sullo Stato di diritto, un sistema giudiziario indipendente, un parlamento eletto democraticamente e offrire spazio a diversi partiti politici, a mezzi di informazione indipendenti e organizzazioni della società civile”.

Magari non con i miliardi del nuovo colonizzatore orientale.


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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.