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Nobel per la Chimica 2018 al potere dell’evoluzione

Assegnato a Frances H. Arnold per gli studi sull’evoluzione diretta degli enzimi e a George P. Smith e Sir Gregory P. Winter per il phage display di peptidi e anticorpi.

ATTUALITÀ – Un premio Nobel per la chimica, quello del 2018 che celebra il potere dell’evoluzione. Frances H. Arnold è stata premiata per aver scoperto l’evoluzione diretta degli enzimi. Una tecnica che le ha permesso di studiare gli enzimi, proteine che agiscono da catalizzatori delle reazioni chimiche, e che trova applicazioni sia nella produzione di biocarburanti che di farmaci. A pari merito hanno ricevuto il premio anche George P. Smith e Gregory P. Winter per aver inventato il phage display per peptidi e anticorpi, impiegati nel trattamento terapeutico di malattie autoimmuni e di alcuni tipi di cancro.

Evoluzione in provetta

Arnold, 62 anni, nasce a Pittsburgh e si laurea all’Università della California di Berkeley. Ora insegna ingegneria chimica, bioingegneria e biochimica al Caltech.

La carriera della Arnorld inizia nel 1979, ma come ingegnere aerospaziale. Una giovane ricercatrice che voleva sviluppare nuove tecnologie per ridurre l’impatto dell’umanità sull’ambiente. Una chimica verde e sostenibile che arriva al punto di svolta nel 1981, quando scopre le potenzialità della genetica. “Era chiaro che la capacità di riscrivere il codice della vita ci avrebbe permesso di sviluppare un metodo completamente nuovo per creare materiali e sostanze chimiche che usiamo nella vita di tutti i giorni”, ha commentato dopo l’assegnazione del riconoscimento.

Il suo lavoro ha rivoluzionato l’industria chimica rendendola più ecologica e sostituendo i solventi, gli acidi e i metalli pesanti con elementi più naturali, come gli stessi enzimi. Queste proteine infatti catalizzano, cioè velocizzano, le reazioni chimiche all’interno degli organismi viventi. Per poter sfruttarli in altri ambiti, era necessario creare nuovi tipi di enzimi che fossero in grado di svolgere la funzione desiderata. Ma creare un enzima da zero era un processo lungo e costoso, motivo per cui la Arnold decise di affidarsi all’evoluzione imitando la natura, lasciando dunque che vi fosse una “evoluzione diretta” delle proteine.

I suoi studi iniziarono dall’enzima subtilisina, un catalizzatore che funziona solitamente in soluzioni acquose. La Arnold voleva renderlo in grado di operare anche in solventi come la demitilfomammide e così ha introdotto delle mutazioni casuali nei geni della subtilisina, proprio come avviene in natura, attraverso l’inserimento del DNA in alcuni batteri. Quello che ha ottenuto è stata la produzione di migliaia di versioni diversi di questo enzima, ognuno leggermente diverso da quello originale, e poi metterlo nella soluzione composta dal solvente desiderato e attendere che la selezione naturale facesse il suo corso.

Reiterando il processo con gli enzimi così selezionati e introducendo nuove mutazioni a ogni ciclo di produzione, alla terza generazione appena l’efficacia della subtilisina così ottenuta nella soluzione di demitilfomammide era aumentata di 256 volte. Una tecnica che ha segnato una vera e propria rivoluzione nel mondo della chimica e che trova applicazione in tantissimi e diversi campi. Dalla generazione di biocarburanti ai nuovi materiali fino allo sviluppo di nuovi farmaci.

Il phage display per peptidi e anticorpi

L’altra metà del premio è stata assegnata all’americano George P. Smith, 71 anni, professore emerito dell’università del Missouri che ha studiato nell’università di Harvard. Un premio ex aequo con il britannico Sir Gregory P. Winter, 67 anni, che ha studiato all’università di Cambridge e ora professore emerito del Laboratorio di Biologia Molecolare del Medical Research Council (Mrc) nella stessa città.

Una tecnica diversa rispetto a quella utilizzata dalla Arnold, ma che si ispira all’evoluzione e ne ha imbrigliato le potenzialità. L’obiettivo di Smith era identificare quali porzioni di DNA codificano la produzione di una data proteina. Per farlo, lo scienziato pensò di utilizzare i fagi, piccoli virus che infettano i batteri e li usano come ospiti per riprodursi.

Per comprendere quale porzione di DNA codificava cosa, Smith e colleghi presero un certo numero di sequenze genetiche, le inserirono nel DNA del virus per poi farlo replicare. Le proteine così ottenute compaiono dunque nella membrana della nuova generazione di fagi e gli anticorpi, che si legano solo a una specifica proteina, ne hanno permesso l’identificazione.

Questo accadeva nel 1985 e la tecnica dal nome di phage display divenne presto famosa, non perché permise di identificare le sequenze di DNA sconosciute che producevano proteine note, ma perché consentì di identificare gli anticorpi che si legavano a una data proteina. Ed è in questo passaggio che arriva la parità con Sir Winter negli anni Novanta, quando lo scienziato era alla ricerca di un modo per produrre anticorpi a scopo terapeutico che non fossero rigettati dall’organismo umano.

L’intuizione di Sir Winter fu infatti quella di utilizzare il phage display per produrre anticorpi e per capire contro quali patologie fossero più efficaci. Inserendo nei fagi miliardi di segmenti di DNA che codificano differenti anticorpi umani il biochimico riuscì a identificare quali si legavano con più specificità a virus, batteri o a cellule tumorali. Un risultato che si concretizzò nel 1994 con la produzione dell’adalimumab, il primo farmaco basato su un anticorpo umano e usato per trattare malattie infiammatorie e autoimmuni come l’artrite reumatoide o la psoriasi.

Un passo che ha segnato la nascita degli anticorpi monoclonali umani, le terapie più promettenti e ancora in piena fase di sviluppo che potrebbero essere impiegate non solo nei trattamenti antitumorali, ma anche per patologie neurodegenerative come l’Alzheimer.

Un Nobel per l’evoluzione

L’evoluzione e la selezione naturale sono il filo conduttore che gli accademici svedesi hanno seguito nell’assegnazione del premio. Come “ispirazione” naturale hanno rivoluzionato il mondo della biotecnologia e della biochimica – che hanno ancora molta strada da percorrere – con applicazioni che vanno dallo studio di materiali innovativi (ecosostenibili e amici dell’ambiente) fino a nuove terapie in campo farmacologico e rivoluzionarie per la medicina.

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Veronica Nicosia
Aspirante astronauta, astrofisica per formazione, giornalista scientifica per passione. Laureata in Fisica e Astrofisica all'Università La Sapienza, vincitrice del Premio giornalistico Riccardo Tomassetti 2012 con una inchiesta sull'Hiv e del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica Giancarlo Dosi 2019 nella sezione Under 35. Content manager SEO di Cultur-e, scrive di scienza, tecnologia, salute, ambiente ed energia. Tra le sue collaborazioni giornalistiche Blitz Quotidiano, Oggiscienza, 'O Magazine e Il Giornale.