AMBIENTE

Adaptation: rispondere al cambiamento climatico

I mari si innalzano, i deserti avanzano, le isole di calore in città si estendono; ma c'è chi reagisce - come Olanda, Israele, Italia - e c'è chi racconta tutto questo, come Marco Merola nel suo progetto Adaptation: dal problema del cambiamento climatico possono e devono nascere opportunità di resilienza.

Adaptation, una parola che non rappresenta il futuro ma il presente. D’altronde il cambiamento climatico è già in atto e l’adattamento non può che essere (insieme alla mitigazione) la risposta dell’umanità. Ne è convinto il giornalista Marco Merola che, dopo aver raccolto storie di adattamento in diversi luoghi del mondo ne ha fatto un webdoc dal titolo secco “Adaptation”.

“Adaptation è una piattaforma digitale, un progetto di constructive journalism, giornalismo partecipativo”, spiega Merola, firma per diversi magazine italiani ed esteri e docente presso il Master in reportage dell’Università Tor Vergata di Roma e la Scuola di Giornalismo Radiotelevisivo di Perugia.

Il vocabolario dell’ambiente va cambiato

Adaptation nasce dall’esigenza di un’informazione ambientale diversa. “I media generalmente adottano una narrazione apocalittica, si parla di ambiente solo quando c’è una catastrofe, ma è sbagliato. È come leggere un romanzo giallo che termina con le pagine dell’assassinio. Manca tutta la parte più succosa, quella dove si arriva a sapere chi é il colpevole e cosa succede dopo. La filosofia di Adaptation, dunque, è proprio quella di far compiere al pubblico l’ultimo miglio, cioè raccontare quali soluzioni il mondo sta mettendo in campo. Con l’aiuto di tanti collaboratori sto dando voce agli attori dell’adattamento”.

C’è poi tutto il lessico da rivedere: “Alcune espressioni usate di frequente dai media, pensiamo a emergenza climatica, non hanno senso, sono fuorvianti. Anche i giornalisti devono adattarsi ai nuovi scenari. Va siglato un new deal tra giornalisti, ricercatori e pubblico. Soprattutto, occorre ribaltare il paradigma della natura killer e ammettere che semplicemente la natura sta reagendo ai comportamenti dell’uomo. Anche la narrazione impostata unicamente sulla guerra dei gradi, 2°C contro 1,5°C (aumento massimo della temperatura globale consentito nei prossimi anni Ndr), non appassiona l’opinione pubblica e fa perdere di vista il contesto”, racconta Merola.

Olanda, per le inondazioni c’è la spiaggia salvavita

Dalla desertificazione alle piogge estreme, la causa del cambiamento climatico è una, la specie umana, ma gli effetti sono molteplici e richiedono risposte su più fronti. Così nel mondo, veri e propri i laboratori a cielo aperto stanno cercando (e hanno trovato) delle soluzioni.

L’Olanda, ad esempio, ha da sempre il problema del mare che entra nelle città. I Paesi Bassi vantano 500 km di costa e a ragione del loro nome, hanno il 20% del territorio sotto il livello del mare mentre il 50% si trova soltanto un metro sopra. Le previsioni future non lasciano tranquilli: il 60% del paese potrebbe sparire nel 2100, se le acque, come si prevede, saliranno di 1,5 metri o più.

L’inondazione del 1953 è stata la ferita più grande dei tempi moderni: 1836 morti. L’Olanda ha reagito alla forza dell’acqua costruendo dighe sempre più alte, con costi sempre maggiori. Ma se si gioca a braccio di ferro con la natura si sa già chi perde. Così, negli ultimi anni, nella terra dei mulini a vento hanno preso a soffiare venti di adattamento che in poco tempo hanno capovolto completamente l’ingegneria e l’architettura tradizionale, fornendo nuove soluzioni per la gestione delle coste. Ribaltando soprattutto la mentalità degli olandesi, passati dal building against nature al building with nature.

È il caso del progetto Mud motor, motore di fango, realizzato dal consorzio scientifico-industriale Ecoshape, in collaborazione con la Delft University – nella quale lavora anche l’ingegnere civile italiana Irene Colosimo. “Sono stati messi davanti alla costa 20 milioni di metri cubi di fango e si è lasciato che il mare con le sue correnti li redistribuisse in maniera naturale – spiega  la ricercatrice Colosimo – il risultato è stata la formazione di una palude-cuscinetto tra la terraferma e l’acqua che garantisce una difesa dalle mareggiate. Questa palude, colonizzata negli anni da vegetazione e fauna, rappresenta oggi un ecosistema perfettamente in equilibrio che si presta anche ad attività sportive, ricreative e scientifiche”.

Sempre made in Holland sono anche altre soluzioni facilmente replicabili in tutto il mondo, come le oyster reef, barriere di ostriche, utilizzate al posto dei frangiflutti. Oppure le dighe di bambù, impiegate nei paesi tropicali per tamponare i gravi danni causati dalla deforestazione delle mangrovie. Uno scempio perpetrato a vantaggio degli allevamenti intensivi di crostacei.

Israele, il miracolo del vino del deserto

Problema opposto all’eccesso di acqua ma stessa voglia di adattarsi c’è in Israele. Qui il dramma è la siccità: il 60% del territorio è desertico e il restante è arido.

Eppure nel deserto del Negev avviene un miracolo dal sapore biblico: l’acqua, poca, pochissima, si trasforma in vino. Tutto merito di Aaron Fait – ricercatore italiano di famiglia ebraica – e del suo progetto che coinvolge l’Università di Ben Gurion del Negev e il Ministero degli esteri italiano. Fait ha aperto un kibbutz scientifico e nel deserto, in cui piovono solo 90 mm d’acqua in dodici mesi, ha fatto fiorire un vitigno che produce 36 milioni di bottiglie all’anno con un incremento del 5-10% annuale.

In realtà, come testimoniano le tracce archeologiche, già 5000 anni fa gli antichi Nabatei coltivavano la vite nel deserto, ma l’attività è poi andata perduta con gli Ottomani.

“Ben Gurion diceva che andare sulla luna non è più importante di piantare nel deserto”, racconta Fait, ed è chiaro che per farlo serve investire nella ricerca scientifica, bisogna trovare soluzioni per efficientare il sistema idrico. “Rispetto al 1999 Israele usa il 12% di acqua in meno per la sua agricoltura e produce il 26% in più, esportando in Europa sia beni alimentari sia tecnologie sostenibili per le colture. Circa il 90% delle acque reflue viene riciclato per l’agricoltura e in parte addirittura ritorna potabile. Il 70% dell’acqua potabile deriva dagli impianti di desalinizzazione. Mentre le nostre automobili viaggiano con il biodiesel ottenuto dalla microalga Haematococcus pluvialis, anche quella allevata nel deserto del Negev”.

Oltre all’invenzione dell’irrigazione goccia a goccia, Israele sta sviluppando sensori capaci di rilevare quando la pianta “ha sete”, così da garantirne l’approvvigionamento mirato senza spreco di acqua.

Milano, prima della classe nella resilienza urbana

Anche l’Italia ha le sue eccellenze adattative. Milano è la “secchiona” della resilienza essendo tra le cinque città al mondo ad avere inserito nell’apparato amministrativo comunale la Direzione resilienza, proprio come esiste la Direzione turismo o la Direzione cultura. È Piero Pelizzaro il “Chief Resilience Officer”, quello che ha in mano le redini della resilienza meneghina: “Entro il 2030 abbiamo l’obiettivo di ridurre dal 74% al 70% la copertura di cemento in città. Per fare questo creeremo venti nuovi parchi, pianteremo tre milioni di alberi e daremo incentivi a quanti incrementeranno il verde. Ovviamente la riforestazione urbana andrà in senso orizzontale ma anche verticale: Milano ha 24 milioni di metri quadri di tetti, una superficie che potrebbe diventare un bel parco nazionale”.

Aumentare la vegetazione è fondamentale per abbassare le temperature medie urbane contrastando le isole di calore, ma c’è un’altra idea che invece dovrebbe consentire a Milano di soffrire meno l’impatto delle piogge torrenziali. È il progetto dei Navigli. Rispolverando l’antica pianta urbana, come concepita dal genio di Leonardo Da Vinci, l’obiettivo è ripristinare il sistema che a fine ‘800 è stato tombato o interrotto. Riportare, cioè, i Navigli all’antico splendore.

La resilienza urbana è una questione cruciale per il futuro: si stima che nel 2050 nel mondo 7 persone su 10 vivranno nelle città. In effetti, la popolazione di Milano ogni anno cresce di 30 mila persone e sebbene il capoluogo lombardo vanti servizi molto efficienti le sfide che la attendono restano tante: “Da noi i mezzi pubblici vengono utilizzati un 20% in più rispetto alla media europea e il rapporto biciclette/abitanti è superiore a quello di Londra, tuttavia è necessario che si vada sempre di più verso l’adaptation economy”, conclude Pelizzaro.


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Crediti immagini galleria: Marco Merola

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Gabriele Vallarino
Giornalista e laureato in Biologia (Biodiversità ed Evoluzione biologica) all'Università di Milano. Su OggiScienza ha modo di unire le sue due grandi passioni: scrivere per trasmettere la bellezza della natura!