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La memetica è morta, lunga vita alla memetica

Le memetica è la disciplina che si occupa dello studio dei meme e della loro diffusione, in analogia con l’evoluzionismo darwiniano.

Il meme è definito come una minima unità culturale: un’informazione custodita nella memoria individuale che possa essere imparata e trasmessa ad altri esseri umani. Esempi di meme possono essere un’idea, uno stereotipo, una particolare moda o un’immagine; sono unità d’informazione che influenzano, formano, colpiscono la società umana e che vanno intese in senso molto più generale rispetto a quello attribuito oggi agli “Internet memes”.

Crediti immagine: Pixabay

Le memetica è la disciplina che si occupa dello studio dei meme e della loro diffusione, in analogia con l’evoluzionismo darwiniano. Secondo questa teoria, infatti, i meme che meglio si adattano a una situazione o a un contesto hanno le migliori chances di diffondersi e resistere nel tempo. La grande differenza è che i meme non si diffondono per via genetica ma, bensì, culturale. Questa analogia è stata utilizzata per la prima volta nel 1976 dal biologo evoluzionista Richard Dawkins, a cui si deve la nascita della memetica, un campo di studi che ha vissuto fortune alterne e che rientra ancora nella definizione di protoscienza.

Nel suo libro “Il gene egoista”, Dawkins usa il termine meme per descrivere un’unità di informazione umana per molti aspetti simili al gene. Dato che l’individuo che porta con sé un meme può trasmetterlo a un’altra persona senza doversene per forza liberare, la trasmissione di informazione altro non è che una replicazione con cui viene creata una copia del meme nella memoria di qualcun altro.

Il concetto di unità d’informazione non era nuovo ed è lo stesso Dawkins a ricordare che era già stato utilizzato pochi anni prima da Ted Cloak e nel lavoro di Luigi Luca Cavalli-Sforza e Marcus Feldman. Il termine “meme”, inoltre, era stato usato in epoca moderna già nel 1904, quando il biologo Semon Wolfgan scrisse “Die Mneme”, un trattato sulla memoria in cui il meme veniva descritto come unità per la trasmissione culturale delle esperienze. A Dawkins spetta il merito di avere gettato alcune delle basi teoriche della neonata disciplina, descrivendo ad esempio le caratteristiche per il successo di un meme:

  1. Fedeltà della copia
    Più una copia è fedele e più questa rimarrà simile all’originale anche dopo molti passaggi.
  2. Fecondità
    Più è veloce il ritmo con cui un meme viene copiato e più il meme si diffonderà.
  3. Longevità
    Più un meme è capace di durare e più sarà possibile replicarlo.

Si tratta di qualità che rendono i memi molto simili ai geni ma la metafora genetica è da considerarsi limitata. I geni, infatti, si possono trasmettere da genitori a figli mentre i memi possono essere trasmessi da due individui qualunque, rendendo molto più efficace la metafora dell’infezione. I geni inoltre impiegano una generazione per compiere il trasferimento. Ai memi, invece, sono sufficienti anche pochi istanti.

Dall’altra parte, però, la fedeltà delle copie dei memi è ben più bassa. È possibile che un racconto che si diffonde da persona a persona risulti alla lunga differente rispetto all’originale. Si tratta di una caratteristica che rende molto difficile analizzare e delimitare il campo d’azione di un meme. I memi mutano e lottano per resistere nella memoria degli individui. I più forti “vincono” e si diffondono di più. La memetica ha proposto dei modelli per analizzare la diffusione dei memi, dando via a un controverso ma di sicuro ispirante dialogo tra culture: umanistica e scientifica.

I primi passi e gli scritti sulla memetica

Nei primi anni ’80 del Ventesimo secolo la nuova disciplina sembrava muovere i primi passi con grande velocità e altrettanta frammentazione dato che l’idea stessa alla base della memetica aveva attratto studiosi da una moltitudine di campi disciplinari diversi. Charles Lumsden ed Edward O. Wilson hanno scritto “Genes, Mind and Culture: The coevolutionary processin cui si interpreta il ruolo dei “geni culturali” (intesi come i memi) mentre nel 1981 Feldmann e Cavalli-Sforza hanno pubblicato “Cultural Transmission and Evolution”.

A metà decennio risale l’uscita del volume “Metamagical Themas”, raccolta di articoli scritti su Scientific American da Douglas Hofstadter, professore di scienze cognitive. Uno degli articoli più discussi riguardava la memetica e il suo potenziale di affermarsi come settore di ricerca. Poco dopo, nel 1991, Richard Dawkins ha riassunto i suoi studi incentrati sulla diffusione di specifici memi, in particolare quelli religiosi, nel libro dal titolo “Viruses of the Mind”. Anno dopo anno il numero di pubblicazioni sulla memetica cresceva sempre più, in alcuni casi raggiungendo anche un pubblico di semplici interessati alla novità.

Al 1997 risale il primo numero di Journal of Memetics – Evolutionary Models of Information Transmission, la rivista online diventata da subito il luogo di dibattito ideale per la nascente comunità di memetisti e per ospitare le pubblicazioni scientifiche sulla memetica. La rivista era ospitata sul sito del Centre for Policy Modelling alla Manchester Metropolitan University e, successivamente, da quello della Vrije Universiteit di Bruxelles. La rivista ha cessato le pubblicazioni nel 2005, interrogandosi su quale fosse il futuro di questa protoscienza dato che erano passati anni e mancavano sia i progressi che un sostanziale coordinamento. Erano in molti, a quel punto, a desiderare che si facesse il “punto” della situazione.

Già nel 2001 l’antropologo Robert Aunger aveva cercato di riassumere i pro e i contro della memetica come disciplina nel libro “Darwinizing Culture: The Status of Memetics as a Science”. Un’anno prima la psicologa Susan Blackmore aveva raccolto nel bestseller “The Meme Machine” i suoi tentativi di considerare la memetica in quanto scienza, illustrandone limiti e potenzialità.

Le critiche

Come successo altre volte nel passato, il paventarsi di un nuovo campo di studi ha suscitato critiche a partire dalle basi stesse della memetica, considerate non verificate quando non del tutto scorrette. Una delle critiche più feroci alla memetica è contenuta nel saggio del 2001 “Memetics: a dangerous idea”, di Luis Benitez-Bribiesca. Secondo il ricercatore messicano, infatti:

«questa idea ha seguito lo stesso percorso di un’apprendista stregone diffondendosi rapidamente tra molti scienziati evoluzionistici, trasformandosi in una strana “scienza della memetica”. Ma mentre i geni sono ben definiti e la loro struttura molecolare è stata ampiamente studiata, i memi sono eterei e non possono essere definiti. Senza un’adeguata idea di questi elementi sfuggenti non sorprende che non esista alcuna dimostrazione scientifica di un replicatore così immateriale e che gli scienziati seri ignorino i memi come base per spiegare la coscienza e l’evoluzione culturale. La memetica non è altro che un dogma pseudoscientifico in cui i memi sono paragonati a geni, virus, parassiti o agenti infettivi che prosperano per la propria sopravvivenza nel cervello umano. La memetica è un’idea pericolosa che rappresenta una minaccia per lo studio serio della coscienza e dell’evoluzione culturale»

Per Benitez-Bribiesca un meme ha una natura inafferrabile e il meccanismo con cui muta e si evolve è del tutto caotico e, di conseguenza, è impossibile da analizzare secondo criteri scientifici. Le sue obiezioni riportano la discussione su un piano più concreto: con quali tecniche si indagano i memi? Quali sono gli strumenti della memetica? Le domande, fondamentali, hanno fatto emergere due correnti, quella degli esternalisti (secondo cui i memi sono artefatti o comportamenti osservabili.

I memi non esistono al di fuori del loro stesso verificarsi) e gli internalisti, che sostengono che i memi siano elementi di memoria conservati a livello neurale nell’organismo. La discussione in merito non si è mai conclusa. Nel 2002 Robert Aunger nel suo “The Electric Meme: A New Theory of How We Think” ha scritto che, per il momento, nessuno ha ancora capito cosa sia, in sostanza, un meme.

La filosofa Mary Midgley ha criticato aspramente l’idea alla base della memetica, a partire dall’analogia con la genetica. La memetica altro non sarebbe che «un tentativo di produrre conoscenza attraverso metafore organiche, la qual cosa è un approccio di ricerca discutibile come se l’applicazione delle metafore avesse l’effetto di nascondere il fatto che non possa rientrare nel contesto stesso della metafora». Molti altri hanno ricordato, in diverse occasioni, come la memetica faccia riferimento a teorie che, se messe assieme, risultano confusionarie e, in ogni caso, troppo vaghe.

Alcuni hanno cercato di mitigare questi dubbi. Robert Aunger, ad esempio, suggeriva come una possibile soluzione potrebbe provenire dalle neuroscienze, che con gli strumenti a disposizione sono in grado di misurare la differenza tra memi diversi, osservati sotto forma di impulsi elettrici nel cervello. David Hull, nel suo saggio Taking memetics seriously: memetics will be what we make itaffermava che la memetica dovesse dedicarsi quanto prima alla ricerca empirica per sviluppare, di conseguenza, diverse teorie memetiche influenzate dal contesto in cui sono state verificate.

Quindi? La memetica applicata

Da quando Dawkins ha introdotto il concetto di memi nel 1976, si è gradualmente sviluppato un linguaggio intorno a concetti come la criticità auto-organizzata, l’emergenza, la formazione di modelli e l’aggregazione a diffusione limitata per modellare, simulare e visualizzare le interazioni all’interno di un sistema complesso. Il suggerimento di Hull, quindi, è stato colto da più parti e quanto teorizzato dalla memetica è stato applicato in vari campi, dall’analisi dei gruppi sociali al marketing, passando per l’impiego anche in ambito militare.

Nell’universo del marketing e delle relazioni pubbliche assistiamo da decenni a operazioni atte a introdurre nuove idee in contesti generali o specifici, usando come veicolo i media. Un esempio interessante di applicazione è quella del Climate Meme Project, progetto del 2013 che voleva capire come l’informazione, il meme, del cambiamento climatico non avesse un impatto significativo e riuscisse a imprimersi nella popolazione. Gli ideatori del progetto, Joe Brewer e Balazs Lazlo Karafiath, soci nella società di consulenza DarwinSF di San Francisco, hanno raccolto 5.000 memi da Facebook, Twitter e Hackathon e li hanno analizzati.

I memi erano frasi come “Vi ricordate quando un tornado era solo un tornado e non uno spot per il riscaldamento globale?” oppure “Gli amici non lasciano che gli amici siano negazionisti del cambiamento climatico” ed è stato possibile classificarli in cinque categorie chiamate “armonia”, “sopravvivenza”, “cooperazione”, “slancio” ed “elitarismo”.

Questa composizione di tensioni sommate costituisce il meme del riscaldamento globale, ma l’essere umano possiede dei meccanismi di protezione che si attivano davanti alla minaccia di un cambiamento e che lo portano a non recepire il messaggio nel profondo. Alcuni assunti teorici della memetica sono stati presi in considerazione nel corso della Guerra del Golfo del 1991, quando il governo degli Stati Uniti si è impegnato anche per veicolare quelli che riteneva essere i motivi del conflitto e declinandoli sia per la popolazione mediorientale che per il pubblico di casa.

Memetica come un’eterna protoscienza?

Sono passati più di quarant’anni e il dibattito sulla legittimità (intesa nel senso più generale possibile) della memetica ha fatto emergere tre diverse posizioni: quella di coloro i quali negano ogni validità, quella di chi invece ritiene che ci siano le caratteristiche per “nobilitare” il nuovo campo di studi e, infine, quella di chi si limita ad aspettare ulteriori sviluppi. Per il momento si è assistito alla nascita della scienza che studia i sistemi complessi, sono stati fatti grandi passi avanti nella linguistica cognitiva e le iniziative di ricerca non sono mancate, soprattutto grazie all’esplosione dell’uso dei media digitali e, in particolare, di Internet. Con l’avvento dei social media, poi, l’analisi della diffusione e dell’impatto di un contenuto ha guadagnato possibilità che fino a qualche anno fa si poteva solo immaginare.

È il caso della diffusione degli “Internet memes”, di cui si studiano le linee di discendenza e le loro modificazioni. I meme mutano e si evolvono lasciando una traccia di dati che può essere studiata con un rigore metodologico senza precedenti, come nel caso di una delle prime ricerche sulla diffusione di informazioni via Facebook o dei numerosi studi sul tipo di reazione emotiva (sentiment) suscitata da un contenuto su Twitter.

Oggi analisti e scienziati sono in grado di tracciare la diffusione di idee e comportamenti in tempo reale con opportuni algoritmi e di caratterizzare la composizione delle strutture semantiche che modellano la maniera in cui vari pubblici pensano su specifici argomenti. La memetica oggi vuole cancellare le accuse di volere “scientizzare” i flussi culturali umani. Dopo quarant’anni si sa molto di più e la memetica gode di un rinnovato interesse scientifico e pone nuove domande.

Un’umanità sempre più connessa rischia l’omologazione della cultura? «Il problema della tirannia dei memi era stata paventato da Dawkins, il quale però suggeriva anche la soluzione», ha spiegato a OggiScienza Anna Curir, ricercatrice dell’INAF e autrice del volume “L’emergere della Terza Cultura e la mutazione letale”, «in caso di omologazione, sostiene Dawkins, l’essere umano può ribellarsi. Noi agiamo tramite la nostra coscienza e saremo comunque liberi di opporci a eventuali tirannie memetiche».


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Gianluca Liva
Giornalista scientifico freelance.