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Se l’antidepressivo non funziona, forse la “colpa” è dei neuroni

Perché la depressione colpisce solo alcune persone e perché alcune non rispondono ai farmaci più usati?

La depressione colpisce, nel mondo, oltre 300 milioni di persone, e anche per quanto riguarda il nostro Paese i dati diffusi dall’Istat non sono certo incoraggianti: più del 5% degli italiani sopra i 15 anni dichiara di averla sperimentata, con una prevalenza che cresce in parallelo con l’aumentare dell’età e dello svantaggio sociale ed economico.

Perché la depressione colpisce solo alcune persone, e perché fra queste alcune non rispondono ai trattamenti farmacologici più comunemente utilizzati? Un lavoro coordinato dal Salk Institute di San Diego, recentemente pubblicato sulle pagine della rivista Molecular Psychiatry, ha cercato di fare luce su quello che è ancora, a tutti gli effetti, un mistero legato al funzionamento del nostro cervello.

Crediti immagine: Pixabay

Farmaci sempre più mirati

Per secoli si è pensato alla depressione come a uno stato di malessere dell’anima provocato da forze sovrannaturali, o come a una colpa, un peccato da espiare, piuttosto che come a una patologia. Successivamente, con l’avvento della psicologia, e più in generale delle scienze cognitive moderne, questo disturbo è stato ricondotto a cause biologiche. In particolare, negli ultimi anni diversi gruppi di ricerca hanno evidenziato il ruolo cruciale svolto da un neurotrasmettitore, la serotonina, nella patogenesi della depressione.

La serotonina è coinvolta in molte funzioni fisiologiche (vasocostrizione, coagulazione, termoregolazione, motilità intestinale) ma è particolarmente importante per la regolazione del tono dell’umore e del sonno: sembra che se la quantità di questa sostanza a disposizione dei neuroni sia sotto una certa soglia per lunghi periodi, si possano innescare processi che portano ad alterazioni dell’umore prolungate, con conseguente sviluppo di stati depressivi.

Anche se per alcuni siamo giunti a una sorta di riduzionismo neuroscientifico (nel quale concetti come l’umore, la psiche, la coscienza e l’anima sono riconducibili ai segnali chimici a cui le nostre cellule neurali sono esposte), è tuttavia innegabile che la descrizione particolareggiata degli effetti provocati da uno scompenso del normale equilibrio di neurotrasmettitori abbia portato allo sviluppo di terapie farmacologiche mirate.

Ad oggi, gli antidepressivi più prescritti sono dei farmaci che agiscono come inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI): quando un neurone rilascia serotonina nella sinapsi, la molecola si può legare al recettore del neurone ricevente o essere “riassorbita” dal neurone di origine (reuptake). Legandosi selettivamente ai recettori presenti sul neurone di origine, gli SSRI impediscono che la serotonina venga ricaptata, aumentando quindi in maniera indiretta la quantità di neurotrasmettitore disponibile.

Pazienti diversi, risposte diverse

Tuttavia, per circa un terzo delle persone che soffrono di disturbi depressivi, gli SSRI non rappresentano una soluzione efficace e l’antidepressivo non funziona come dovrebbe. La colpa, secondo il gruppo di ricerca del Salk Institute, potrebbe essere dei neuroni stessi, che diventano iperattivi in risposta alla presenza di serotonina.

Da un gruppo di oltre 800 pazienti affetti da disturbi depressivi, i ricercatori – guidati dalla Professoressa Krishna Vadodaria – hanno selezionato tre pazienti che avevano raggiunto una completa remissione grazie all’uso di SSRI, e tre pazienti che, di contro, non avevano registrato alcun tipo di miglioramento dopo un trattamento di otto settimane a base degli stessi farmaci.

I ricercatori hanno poi isolato alcune cellule dell’epidermide di questi pazienti e di tre volontari sani (che fungevano, nella sperimentazione, da gruppo controllo); utilizzando poi un’opportuna tecnica di riprogrammazione, sono riusciti a trasformare le cellule epiteliali in cellule staminali pluripotenti indotte (IPSC), e da questo stato indifferenziato in neuroni. Una procedura che apre il campo ad osservazioni fino a pochi anni fa inimmaginabili.

“Uno degli aspetti più entusiasmanti di questa ricerca – spiega Vadodaria – è che abbiamo potuto osservare direttamente l’attività delle cellule nervose umane, che normalmente non sono accessibili nei pazienti, e correlarla con i dati clinici, genetici, ai trattamenti a cui le persone sono state sottoposte e alle risposte ottenute”.

I ricercatori hanno quindi studiato il comportamento dei neuroni in risposta ad un aumentato livello di serotonina (hanno cioè mimato l’effetto ottenuto dall’assunzione di SSRI): in presenza di serotonina, alcuni neuroni derivati dalle cellule dei pazienti “non rispondenti” presentavano, in media, un’iper-attivazione rispetto a quelli dei volontari sani, o deo pazienti che rispondevano bene alla terapia farmacologica. Ulteriori esperimenti effettuati dal gruppo di San Diego hanno mostrato che irrorando i neuroni con una sostanza specifica, in grado di bloccare due specifici recettori della serotonina, l’attività neuronale tornava a livelli normali (suggerendo così il percorso per il possibile sviluppo di un farmaco efficace per il maggior numero possibile di pazienti).

Per ora, naturalmente, si è in una fase di ricerca ancora prematura, ma gli studi su come l’attivazione neurale influenzi l’efficacia di un farmaco possono servire anche per capire come mai dei trattamenti che modificano in maniera transitoria l’attività di alcune aree del cervello (come la stimolazione magnetica transcranica, TMS) mostrino risultati incoraggianti nel trattamento di un disturbo così complesso e sfaccettato, come è la depressione.


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Marcello Turconi
Neuroscienziato votato alla divulgazione, strizzo l'occhio alla narrazione digitale di scienza e medicina.