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Dalla Grigna, in Lombardia, un fossile dalla storia particolare

Un metro di lunghezza, pancia piena e corpo tranciato a metà: il nuovo saurittide è stato predatore e preda insieme..

Ricostruzione di un esemplare di saurittide trovato in Lombardia. Immagine di Andrea Tintori, Università di Milano

Quella che oggi è un’area montana, in Lombardia, nel Triassico aveva un aspetto quasi tropicale. Il gruppo delle Grigne è un paradiso per i paleontologi, dal quale continuano a spuntare resti interessanti. Uno di questi è un esemplare di Saurichtys o meglio, una parte: manca la sezione posteriore del corpo, che in base alle ipotesi è stata troncata. Da chi? Forse il morso di un grosso ittiosauro, un altro degli ex abitanti dell’area. Nell’intestino i resti del suo ultimo pasto, che per la prima volta mostrano come questi grossi pesci si nutrissero anche di carcasse e non solo di piccole prede vive. Abbiamo fatto una chiacchierata con Andrea Tintori, paleontologo dell’Università di Milano che ha trovato l’esemplare e pubblicato i dati del ritrovamento sulla Rivista italiana di paleontologia e stratigrafia.

In questo sito erano già stati trovati dei saurittidi? Se sì, cosa rende speciale questo nuovo esemplare?

La località fossilifera degli Scudi di Grigna è ricca di resti di Saurichthys, anche di grandi dimensioni: si parla di lunghezza sopra il metro, nella maggior parte dei casi stimata perché è stato trovato solo il cranio. In particolare, alcuni anni fa è stata descritta la nuova specie Saurichthys grignae. L’esemplare tipo di questa specie [il singolo animale di riferimento dal quale è stata descritta] è lungo circa 135 cm e, a parte le caratteristiche anatomiche del corpo che lo differenziano dalle circa 50 specie descritte di Saurichthys, ha il cranio quasi totalmente distrutto. Non si tratta della ‘normale’ disarticolazione, ovvero la separazione delle singole ossa in seguito alla decomposizione delle parti molli, ma di una fratturazione traumatica interpretata come evidenza di predazione.

Lo stesso si ritiene sia accaduto al nuovo esemplare appena descritto, un attacco da parte di un animale ben più grande di lui, che lo ha letteralmente spezzato in due, con la parte posteriore verosimilmente finita nelle fauci del predatore. Ma non vi è solo questo di interessante, perché questo Saurichthys ha nell’area intestinale numerosi resti del suo ultimo pasto, ossa e scaglie di almeno due Ctenognathichthys bellottii, un altro pesce abbastanza comune nel sito della Grigna settentrionale. Lo sappiamo perché i denti di questi pesci sono assolutamente caratteristici, a rastrello o a draga, e anche l’ornamentazione delle scaglie non lascia adito a dubbi. Non solo sappiamo cosa aveva mangiato, ma che non era stata una predazione in senso stretto, cioè la cattura di un pesce vivo, perché altrimenti avremmo trovato il pescetto più o meno intero nello stomaco, come avviene per altri esemplari di Saurichthys. In questo caso, le ossa isolate e sparse fanno propendere per la necrofagia, cioè il cibarsi di carcasse in decomposizione, cosa che non era mai stata segnalata per Saurichthys.

Quindi la storia di questo esemplare è piuttosto turbolenta.

Sì: l’esemplare di Saurichthys strappa numerosi brandelli da almeno due carcasse galleggianti di Ctenognathichthys, a pancia piena viene attaccato verosimilmente da un grande ittiosauro – resti del quale sono stati rinvenuto in un sito coevo in Val Gardena e sono esposti al Museo Ladino di Ortisei – che si pappa la parte posteriore mentre quella anteriore va al fondo, dove la decomposizione dell’ultimo pasto fa gonfiare l’addome facendo aprire a libro il corpo del Saurichthys stesso.

C’erano già evidenze di qualche tipo di una predazione simile?

Saurichthys con piccoli pesci in pancia sono conosciuti, ma in genere sembra che preferissero ingoiare intere piccole prede. La loro anatomia non permette una grande espansione della gola, come nei pesci moderni che possono ingoiare prede intere lunghe la metà di loro. Il nostro sarebbe comunque il primo caso di saprofagia. L’osservazione di predatori simili attuali non aiuta: alcuni sono strettamente piscivori mentre altri mangiano quello che trovano, addirittura anatre abbattute dai cacciatori, cadute in acqua e azzannate prima del recupero!

Diverso è il discorso sulle evidenze della predazione: la mancanza di una parte importante del corpo, pur con una conservazione ottimale di quanto resta, è il principale indizio di un evento traumatico che ha provocato la morte. Lo stesso vale per la frammentazione di una parte del corpo, spesso il cranio. Di casi simile ce ne sono forse più di quanti riconosciuti come tali, anche in materiale già pubblicato. Oggi, tramite il web, è possibile vedere molte riprese di attacchi a grossi pesci, cosa che fino a qualche anno fa era impossibile. Ricordo quando inizia a lavorare su Saurichthys, oltre 30 anni fa: trovare informazioni sulle modalità di attacco del barracuda, per esempio, era praticamente impossibile.

Visto l’alto numero di ritrovamenti, possiamo dire che oggi un paleontologo può farsi un’idea piuttosto precisa di che aspetto avesse quest’area della Lombardia nel Triassico. È la norma riuscire a ricostruire le catene trofiche con così tante informazioni o il sito delle Grigne è interessante anche per la ricchezza e varietà dei ritrovamenti?

Il Triassico della Lombardia è un vero paradiso per i paleontologi! Abbiamo una serie di località fossilifere incredibili che rientrano a tutti gli effetti nei cosiddetti Fossil-Lagerstätten, cioè i siti che forniscono informazioni ben al di sopra della media. Il Monte San Giorgio, che ha visto il mio lungo impegno per farlo diventare patrimonio umanità UNESCO, il Norico delle Prealpi bergamasche, bresciane e della Tremezzina, le Grigne. Purtroppo, spesso solo pochi paleontologi conoscono questo patrimonio e lo “sfruttano” proprio per cercare di ricostruire gli ambienti del passato nel modo più preciso possibile.

Ci vuole un po’ di fantasia per combinare le informazioni dedotte dall’osservazione del mondo attuale, comprendendo i rapporti tra gli organismi e il loro modo di vita, e applicare poi questi principi ai fossili che – come dicono gli inglesi – “are very dead”: cioè sono molto morti! È evidente che più fossili/specie ci sono più informazioni si possono recuperare, sempre tenendo presente che non abbiamo mai tutta la biocenosi, cioè l’associazione degli organismi viventi, e ci mancano alcuni parametri chimico-fisici dell’ambiente stesso. Poi, si può essere fortunati come con la scoperta dell’esemplare di Saurichthys appena studiato: un solo fossile ci racconta una lunga e complessa storia.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".