CULTURALIBRI

Come si comunica il rischio?

"La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" di Giancarlo Sturloni è un manuale per chi ogni giorno deve raccontare i rischi al pubblico, ma anche per capire la storia di questa disciplina. Da Seveso e Chernobyl fino ai vaccini e ai cambiamenti climatici.

«I risultati delle nuove ricerche mostrano che talvolta sono proprio i gruppi più informati a dimostrarsi meno disponibili a lasciare completa libertà a esperti e scienziati: le conoscenze alimentano infatti l’atteggiamento critico piuttosto che l’appoggio incondizionato, portando spesso alla richiesta di maggiori controlli».

In una frase, estratta da La comunicazione del rischio per la salute e per l’ambiente di Giancarlo Sturloni (Mondadori Università 2018, 136 pagine, 12 €) uno dei grandi problemi del nostro tempo: la necessità di comunicare i rischi al grande pubblico e di farlo bene, misurando le parole e spiegando i termini tecnici, ricordandoci che la questione di fondo è una. La fiducia. Il rapporto tra la società e “la scienza”, un soggetto che così espresso, con il la, suona spesso distante dal quotidiano, è cambiato. La scienza, come il rischio, è nelle nostre scelte alimentari, in quelle farmacologiche, nel nostro approccio alla gestione dei rifiuti e alla sostenibilità del nostro stile di vita.

Quello di Sturloni, giornalista scientifico e saggista, è un manuale per chi, soprattutto per lavoro, si trova quotidianamente a gestire temi complicati – dai vaccini fino ai cambiamenti climatici – e voglia approfondirne modelli di comunicazione e casi studio, così come fare un passo indietro e valutare il proprio tono di voce, stile di scrittura e comunicazione in generale, chiarezza espositiva. Ma è un libro adatto anche a chi voglia scoprire come si è sviluppata questa disciplina nel corso degli anni e quanto, inizialmente, si sia sottovalutata l’importanza di parlare chiaro e con onestà al grande pubblico non specialistico.

Il compito della comunicazione del rischio, Sturloni lo sottolinea subito, non è banale: agevolare la condivisione delle informazioni necessarie per fare scelte consapevoli, individuali e collettive.

Cosa vuol dire comunicare il rischio?

Ma cos’è la comunicazione del rischio? È il giornalista che scrive dei rischi legati a un pianeta che si riscalda o un medico che spiega ai pazienti i possibili effetti collaterali di una terapia. È un ente pubblico che apre un canale ufficiale sui social media per aggiornare in tempo reale la popolazione nelle situazioni di emergenza, è un’associazione ambientalista o un gruppo di “cittadini attivi” che fa sentire la propria voce su temi preoccupanti, che non ricevono il giusto rilievo nel dibattito pubblico o la dovuta attenzione da parte delle autorità e dei media.

Il rischio non va negato o sminuito: la comunicazione deve essere tempestiva, efficace e trasparente. Non possiamo sapere tutto e i limiti della nostra conoscenza vanno esplicitati, cercando un dialogo aperto con tutti gli interlocutori coinvolti. Bisogna saper scegliere i canali più adatti, che si tratti di raggiungere un pubblico più ampio o del bisogno di arrivare agli interessati più rapidamente, a ancora saper coinvolgere tutti gli attori sociali in grado di contribuire. Se sono un’azienda o un’ente di qualsiasi tipo, oggi, dovrei subito chiedermi: come gestisco il rischio e la crisi? Ho chiari i rischi legati all’attività e ho già in mente portavoce, informazioni e un piano di comunicazione da mettere subito in campo se dovessi trovarmi a gestire una crisi?

Alcuni degli esempi di comunicazione del rischio storici sono noti e “distanti”, come Chernobyl, altri li abbiamo avuti in casa. Tra tutti, caso studio per eccellenza, l’incidente di Seveso: era il 10 luglio 1976 quando dagli impianti dell’ICMESA, una fabbrica chimica, ci fu una fuga di una gas derivato dalla diossina, con conseguente nube tossica. Solo il giorno dopo le autorità locali furono informate dell’accaduto e gradualmente, con problemi di salute tra gli abitanti e morie di piccoli animali, le conseguenze si manifestavano. Il bilancio fu di quasi 200 casi di cloracne, tumori, aborti e angoscia ta gli abitanti dell’area per gli effetti a lungo termine, ma non fu possibile ascrivere al gas morti dirette. Qualcosa però era cambiato per sempre: per la prima volta una normativa, la Direttiva Seveso, stabilì l’obbligo di informare la popolazione sui pericoli delle attività chimiche o industriali cui è esposta.

Dieci anni dopo il sociologo tedesco Ulrich Beck avrebbe coniato il concetto di società del rischio, una società nella quale il continuo progresso tecnologico avrebbe portato con sé anche innumerevoli e poliedrici rischi. Per di più, si sarebbe trattato di rischi non eliminabili in quanto “connaturati al processo di innovazione”.

Quando i rischi non sono eliminabili

Nella nostra società del rischio, o meglio, nella nostra percezione del rischio, qualcosa sta andando storto: abbiamo quotidianamente di fronte agli occhi numeri allarmanti sulla disponibilità alimentare o di acqua, sugli effetti dei cambiamenti climatici, sulla sesta estinzione di massa che stiamo provocando, sul nostro drammatico impatto sugli habitat di tutto il mondo. Eppure li sentiamo forse ancora “lontani”, non in grado di scatenare quella presa di coscienza che ci porterebbe a voler limitare alcuni rischi, dando il nostro personale contributo. Anche nei numeri raccontati da Sturloni si trova da subito di che preoccuparsi:

«Si stima che per ogni grado Celsius in più, le rese dei raccolti di cereali possano diminuire del 10%, mettendo così a rischio la sicurezza alimentare in un mondo sempre più popolato: secondo l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), a causa dell’incremento demografico entro il 2050 dovremo aumentare la produzione di cibo almeno del 70%, ma senza danneggiare ulteriormente gli ecosistemi con fitofarmaci e fertilizzanti».

Una situazione piena di rischi, perché da qualsiasi punto di vista la si guardi la realtà di oggi dovrebbe farci paura (per citare Greta Thunberg sui cambiamenti climatici, “Voglio che abbiate paura, la stessa paura che io ho ogni giorno”). I rischi legati all’aumento delle temperature globali e quelli che conseguono l’essere tantissimi su un pianeta ipersfruttato, e ancora il rischio di non poter nutrire adeguatamente tutti i futuri “cittadini del mondo” – l’instabilità alimentare è un problema già più che attuale – e quelli per l’ambiente che dovremo tamponare, se vogliamo aumentare la produzione e riuscire a dar da mangiare a un popolazione in continua crescita senza distruggere quanto resta degli ecosistemi già pesantemente compromessi sul pianeta.

Dal libro di Sturloni ciascuno di noi può portare a casa qualcosa. Formazione per chi nella comunicazione ci lavora e vuole riflettere sul tema da punti di vista consolidati ma anche da altri nuovi e, per un lettore generalista, una migliore comprensione di cosa si trovi ad affrontare chi il rischio lo deve appunto raccontare ogni giorno.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".