GRAVIDANZA E DINTORNI

Il peso giusto in gravidanza

Rispetto ai rischi di complicazioni, conta di più l'indice di massa corporea che si aveva prima della gravidanza dei chili che si prendono durante. Le linee guida da uno studio su JAMA.

Tenere sotto controllo l’aumento di peso in gravidanza è importante, ma non bisogna farne un dramma se si sgarra un po’, soprattutto se il peso di partenza – o, meglio, l’indice di massa corporea – era già buono. Non troppo basso o troppo alto. Anzi, sono proprio le condizioni di partenza a contare di più e dunque quelle alle quali bisognerebbe prestare più attenzione. Ecco, in breve, le conclusioni di una meta-analisi che a partire da dati relativi a vari gruppi di donne incinte di diversi paesi occidentali ha cercato di mettere in relazione l’aumento di peso in gravidanza rispetto all’indice di massa corporea pre-gravidico con eventuali complicazioni della gravidanza stessa. I risultati dell’indagine, condotta da un gruppo internazionale di studio su obesità materna ed esiti infantili, sono stati pubblicati sul Journal of American Medical Association (JAMA).

Che i chili presi nei nove mesi d’attesa abbiano una rilevanza rispetto all’andamento della gravidanza non è una novità: già nel 1990 l’Institute of Medicine (IOM) americano aveva formulato delle linee guida, riviste nel 2009, che ponevano paletti precisi su quanti chili si possono mettere su in gravidanza, in base all’indice di massa corporea di partenza. A proposito: l’indice di massa corporea rappresenta una sorta di relazione tra il peso effettivo e il peso ideale dell’individuo e si calcola dividendo il peso in chilogrammi per il quadrato dell’altezza espressa in metri. Il valore ottenuto distingue le condizioni di sottopeso (meno di 18,5), normopeso (tra 18,5 e 24,9), sovrappeso (tra 25 e 29,9) e obesità (più di 30, ma con ulteriori suddivisioni in tre classi di gravità crescente).

L’aumento eccessivo di peso in gravidanza è stato associato a un aumento del rischio di varie complicazioni, come diabete gestazionale, ipertensione, preeclampsia, macrosomia fetale (quando si stima che il feto a termine pesi più di 4,5 kg), difficoltà nel parto, taglio cesareo, oltre che a un aumento del rischio di obesità infantile. Da qui una serie di indicazioni molto stringenti – e talvolta un po’ terroristiche – per la donna incinta, invitata a non superare assolutamente certi incrementi ponderali (per esempio, non più di 16 kg per la donna normopeso secondo le indicazioni dell’IOM, nel frattempo diventato NAM, National Academy of Medicine). I risultati della nuova meta-analisi tendono a ridimensionare queste indicazioni, puntando l’attenzione più sull’indice di massa corporea di partenza che sui chili acquisiti nei mesi d’attesa.

L’aspetto cruciale: il peso pre-gravidanza

I ricercatori hanno preso in considerazione dati relativi a poco meno di 200 mila donne di una quindicina di paesi (tra cui anche l’Italia) che hanno avuto una gravidanza singola tra il 1989 e il 2015, valutando l’eventuale relazione tra indice di massa corporea pregravidico, aumento di peso in gravidanza e presenza di almeno una tra le seguenti complicazioni: preeclampsia, ipertensione o diabete gestazionale, parto cesareo, nascita pretermine, neonato piccolo per età gestazionale. “Una condizione, quest’ultima, che può comportare sul breve periodo un aumento del rischio di complicazioni respiratorie o crescita inadeguata e a lungo termine un aumento del rischio di malattie metaboliche e cardiovascolari anche in età adulta” spiega a OggiScienza la ginecologa Anna Locatelli, responsabile del dipartimento materno-infantile dell’Asst di Vimercate e professoressa all’Università di Milano Bicocca.

Quello che emerge dall’analisi dei dati è che, se è vero che un aumento di peso squilibrato in gravidanza può essere associato a complicazioni – dunque è opportuno indicare degli intervalli di incremento ponderale da rispettare in base all’indice di massa corporea di partenza- , è proprio questo valore a contare di più.

“In altre parole: è più importante come si parte che quanto si aumenta” commenta Locatelli. A mettere a rischio la gravidanza sono in particolare situazioni estreme, come un forte sottopeso o l’obesità (a maggior ragione se grave). Nel primo caso i problemi si hanno soprattutto per un aumento troppo contenuto di peso (cioè se si prendono meno di otto chili) e il rischio più elevato è quello di feto piccolo per età gestazionale. Nel secondo caso i rischi aumentano quanti più chili si prendono e riguardano soprattutto una maggior probabilità di ricorso a taglio cesareo. “Se invece l’indice di massa corporea di partenza è già buono, cioè siamo nella categoria del normopeso o poco al di fuori di questa, i rischi si mantengono bassi per ampi intervalli di aumento di peso” commenta Locatelli. Sottolineando che quindi attribuire ai soli chili presi in gravidanza un significato molto rilevante è probabilmente improprio.

Possibili intervalli di peso da considerare

La meta-analisi propone comunque degli intervalli ottimali di aumento di peso, in parte sovrapponibili a quelli del NAM, cioè: tra 14 e 16 kg per le donne in condizione di sottopeso; tra i 10 e i 18 kg per le donne in condizione di normopeso; tra i 2 e i 16 kg per chi parte in condizione di sovrappeso e non più di 4-6 kg per chi parte in condizione di obesità. E per quanto, secondo lo studio, questo aumento non sia così significativo rispetto al rischio di complicazioni, gli autori osservano che nel campione considerato solo il 55% circa delle donne riusciva a mettere su un numero di chili effettivamente adeguato.

Che cosa portare a casa, dunque, da queste osservazioni? “In un’ottica di salute pubblica, che le risorse disponibili dovrebbero essere destinate iniziative dedicate più al mantenimento di un indice di massa corporea ottimale in tutte le donne in età riproduttiva che al controllo del peso in gravidanza”, hanno commentato su JAMA Mary McDermott, della Northwestern University di Chicago, e Linda Brubaker, dell’Università di San Diego. “Penso per esempio a interventi educativi su nutrizione ed esercizio fisico, che promuovano la consapevolezza, ancora scarsa, che il peso corporeo è un fattore rilevante non solo per l’estetica ma anche per il benessere e la salute” dichiara Locatelli. Precisando però che a livello individuale il discorso può diventare molto complicato.

“Condizioni di estremo sottopeso o di grave obesità possono essere espressione di malattie o di disagi profondi della persona: non si risolvono semplicemente suggerendo di mangiare meglio o muoversi di più. Vanno affrontate in modo globale, a partire dal medico di famiglia”.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

 

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance