DOMESTICI

La depressione in canile, riconoscerla e trattarla

Alla base ci sono un grande senso di solitudine, l'assenza di un gruppo sociale di cui sentirsi parte e la mancanza di abitudini quotidiane consolidate.

Immagine: Pixabay

Di fronte a quella gabbia nessuno si ferma troppo a lungo. I visitatori passano cercando il cagnolino perfetto per loro, e lui non è mai quello giusto. Sta lì immobilizzato, non muove un muscolo. È steso a terra a un passo dalla cuccia con gli occhi fissi, non dorme, se lo chiamano non si gira, non muove nemmeno un’orecchio. Un ghiacciolo che, se ti avvicini al box, alza leggermente il labbro mostrando i denti. Quando nessuno lo vede fa la pipì nella ciotola dell’acqua.

Questa potrebbe essere la tipica fotografia di un cane di canile depresso, disilluso e distaccato dal mondo, un atteggiamento che denuncia uno stato psicologico di profondo malessere e non necessariamente una disposizione caratteriale. Il cane che abbiamo di fronte, in un’altra situazione – fuori dal box o inserito in una famiglia – potrebbe presentarsi in maniera del tutto diversa. Potrebbe dimostrarsi un animale gioioso che adora giocare con il frisbee, potrebbe essere quel cane che ama la sua famiglia tanto da tollerare anche le marachelle dei bambini, potrebbe essere un individuo dalle insospettabili competenze comunicative, felice e attivo, per nulla aggressivo.

Non ci sono numeri a disposizione per poter sapere, anche solo con approssimazione, quanti sono i cani depressi nei canili, ed è forse per questo che il tema è spesso sottovalutato, se non addirittura del tutto sconosciuto.

A differenza di quella umana, che viene diagnosticata attraverso sintomi anche molto soggettivi e grazie alla comunicazione con il paziente, parlare strettamente di depressione per le altre specie – che non possono dirci come si sentono – è più complesso e gli scienziati tendono a essere cauti. Gli studi sul supporto che un pet può dare a una persona depressa non mancano, mentre la letteratura sulla salute mentale canina langue. In generale, tendono a spiegare gli esperti, ci sono comunque degli aspetti del problema che possiamo misurare negli animali. Ad esempio l’anedonia, quindi la perdita di interesse nei confronti di attività piacevoli come mangiare o riprodursi, o ancora cambiamenti nei ritmi sonno-veglia e nell’interazione con i conspecifici. Non a caso studiare questi problemi di salute è più facile sui primati, così simili a noi: come spiega in un’intervista il neuroscienziato Olivier Berton, professore associato alla University of Pennsylvania, di fronte a specie come gli scimpanzé una persona formata è spesso in grado di dire se l’animale è depresso basandosi sull’espressione del volto.

Le mille facce della depressione

Eleonora Bizzozero, educatrice cinofila e istruttrice della scuola ThinkDog, lavora da molti anni come educatrice volontaria nei canili. “La depressione nei canili è un argomento molto complesso e spesso poco riconosciuto, ma purtroppo molto più presente di quanto si possa pensare. Nei cani di canile si fa fatica a riconoscere i sintomi della depressione perché, alla vista delle persone, quando il personale si avvicina ai box, i cani si mostrano apparentemente molto felici, fanno le feste e sono gioiosi. Ma quelli sono solo dei momenti”, racconta a OggiScienza. “Poi, a luci spente, a canili chiusi, per la maggior parte delle ore della loro vita, i cani tornano a sentirsi soli, tristi, abbattuti. È un’apparente felicità la loro, che inganna anche gli addetti di canile. Ecco perché è così difficile leggere la depressione in queste situazioni”.

Nei cani, infatti, la condizione può causare una serie di sintomi anche molto differenti, perfino del tutto opposti dunque difficili da notare e interpretare. Ce lo ha spiegato la dottoressa Manuela Michelazzi, medico veterinario comportamentalista, specialista in etologia applicata e benessere degli animali da affezione, oltre che Direttrice Sanitaria del Parco Canile di Milano.

“Ci sono cani che, una volta fatto il loro ingresso in canile, dopo una vita in famiglia o da randagi liberi, si lasciano letteralmente andare. Scelgono di non mangiare, non giocano, non esplorano l’ambiente, sviluppano sintomi del tutto simili a quelli della depressione nell’essere umano. Altri rispondono, invece, con stati di grande ansia, con atteggiamenti che denotano vero terrore, anche con una certa aggressività da paura”. A causa della depressione, c’è chi morde le sbarre della gabbia fino a ferire profondamente le gengive e i denti, chi inizia a mostrare atteggiamenti ripetitivi come girare su sé stesso senza poter star fermo, chi invece va letteralmente in freezing, ossia si immobilizza del tutto. Qualcuno diventa apatico, disinteressato a persone e ambiente, qualcuno finisce per autolesionarsi leccandosi e mordendosi parti del corpo in maniera incontrollata, qualcuno aggredisce violentemente chiunque si avvicini.

“A volte – spiega ancora Bizzozero – lo stress cronico che causa stati depressivi forti è scambiato addirittura per ‘stupidità’, anche da dagli stessi addetti: quel cane che fa di tutto pur di uscire dal box e una volta fuori in passeggiata vuole immediatamente rientrare, o quel cane che, portato a passeggio cammina con troppa calma senza annusare ed esplorare l’ambiente, o ancora quel cane che fa i bisogni nella propria cuccia o nella ciotola. Sono tutti segnali di forme gravi di stress prolungato dovute alla situazione della vita in canile e sono spesso condizioni molto preoccupanti”.

Come influiscono razza, età e solitudine

Ci sono razze più predisposte di altre a soffrire di depressione in canile? O età più a rischio? L’esperienza diretta degli esperti e la genetica ci dicono molto anche su questo. Tutti quegli individui che geneticamente sono molto portati alla collaborazione con l’essere umano e hanno forti motivazioni di razza affiliative sono particolarmente predisposti, “perché per questi cani l’assenza dell’essere umano è ben più dolorosa della condizione di mancanza di libertà”, prosegue Bizzozero. “È il fatto stesso di non avere più un gruppo sociale a cui appartenere che li rende più fragili. Penso, ad esempio, a tutti i ‘bulli’, come i pitt bull o gli amstaff. È in queste razze che ho visto con maggiore frequenza stati depressivi che arrivano fino all’autolesionismo più estremo”.

Mentre i cuccioli che entrano in canile godono di una maggiore dose di energia – che passa anche attraverso l’attività del gioco – per fronteggiare questa condizione di vita, gli anziani che fanno il loro ingresso in canile sono davvero a rischio. “Cambiare ambiente e trovarsi immersi in una realtà completamente diversa senza stabilità, senza le normali consuetudini quotidiane, né le proprie figure di riferimento, è fonte di grande imprevedibilità e gli stimoli stressanti continui che ci sono nelle strutture sono davvero molti”, precisa Manuela Michelazzi. “Naturalmente i cani anziani, per età, hanno meno capacità di adattamento e hanno più bisogno di sicurezze e routine. Quando entrano in canile possono facilmente sentirsi depressi e non sempre riescono ad adattarsi”.

Se la mancanza di una famiglia umana o canina e l’assenza di interazione con i propri simili può giocare un ruolo centrale nello sviluppo di stati depressivi, una parziale soluzione potrebbe essere garantita dai box condivisi, pratica, però, piuttosto complessa.

“C’è la possibilità che condividere un legame, e uno spazio box, da parte di due cani possa alleviare la sofferenza e lo stress – racconta ancora Eleonora Bizzozero – ma solo se la coppia è stata formata in maniera precisa. In caso contrario i cani non saranno veramente compagni di vita e non condivideranno altro che uno spazio. A volte il fatto che due cani messi insieme non litighino non significa che stiano bene e che non soffrano di solitudine, ma piuttosto che, dovendo condividere forzatamente uno spazio, si tollerino al fine di evitare i conflitti fisici”.

Cosa si può fare: dalla parte dell’educatore cinofilo

La condizione della vita in canile è sempre molto dura per tutti i cani e poter trattare la depressione in maniera efficace è quasi un’utopia. Ci sono animali più difficili da aiutare e altri per i quali il canile non diventerà mai tollerabile. Eppure qualcosa si può fare. Ed è il motivo per cui sempre più canili ospitano educatori e volontari.

“Per quanto sembri paradossale – precisa la Bizzozero – i cani sono abituati a vivere con noi da così tanto tempo che spesso preferiscono la presenza delle persone alla compagina dei loro simili e non è la reclusione il male più grande per loro. Sia per cani che sono stati randagi o semiselvatici, che per quelli che hanno vissuto con l’essere umano prima di entrare in canile, il dolore maggiore è quello di non appartenere più a un gruppo familiare stabile, fatto che destabilizza il cane e causa insicurezza. Per questo l’ideale è cercare di organizzare una certa routine anche in canile, una scansione di tempi e attività che offra sicurezza, come le uscite regolari e la garanzia di una compagina”.

Già uno studio del 2006, pubblicato su Physiology & Behaviour, aveva dimostrato come presenza e contatto umano siano responsabili dell’abbassamento dei livelli di cortisolo – l’ormone dello stress – nei cani residenti in rifugi. In quell’occasione dei cani adulti vennero suddivisi in due gruppi. Solo uno dei due poteva interagire con un compagno umano per 45 minuti al giorno (con coccole, esercizi, massaggi) per nove giorni consecutivi. Al termine dell’esperimento vennero esaminati i livelli del cortisolo nella saliva dei cani e il risultato dimostrò che nei soggetti che avevano interagito con le persone i livelli di ormone dello stress si erano abbassati drasticamente a partire dal terzo giorno di attività.

“Io consiglio sempre – continua la Bizzozzero – di regalare un po’ di compagina al cane anche nel suo box, non solo nel momento dell’uscita. Dopo ogni passeggiata sarebbe bello che il volontario di riferimento trovasse almeno dieci minuti di tempo per poter condividere delle attività semplici con il cane all’interno di quella che per lui – bella o brutta che sia – è la sua casa: qualche massaggio calmante, un momento di riposo insieme, qualche minuto di condivisione dello spazio del box”. Anche solo 15 minuti i coccole possono fare la differenza, come spiegano gli scienziati in uno studio apparso lo scorso anno su Applied Animal Behaviour Science. Da un esperimento su sessioni di coccole nei cani di canile fatte da volontari non familiari per gli animali testati, è risultato chiaro che lo stato di benessere dei soggetti migliorava, seppur in maniera variabile, anche solo con brevi momenti di condivisione e contatto fisico da pochissimi minuti al giorno.

Eppure in canile, come ci chiarisce l’educatrice, bisogna far attenzione anche a non esagerare. “Tempo e contatto con l’essere umano sono fondamentali per il benessere dei cani, ma altrettanto importante è la rotazione dei volontari: è fondamentale avere cura di non creare legami ‘morbosi’ di attaccamento perché in quel caso, il volontario che sia allontana diventa fonte di dolore per il cane. Non dobbiamo cadere in quell’errore di essere felici che il cane sia troppo eccitato di vederci, perché quell’attaccamento eccessivo lo farà soffrire di più nel momento della nostra assenza”.

Cosa si può fare: dalla parte delle istituzioni

“In una situazione ideale i canili non esisterebbero”. Così è iniziata la nostra intervista con la dottoressa Michelazzi, che la situazione dei canili la conosce davvero bene. L’ambiente del canile non consente ai cani di vivere il libertà o semilibertà, di poter esprimere il loro repertorio comportamentale o vivere una normale socialità. Per questo un buon sistema non si occupa esclusivamente degli aspetti sanitari, ma dedica altrettanta attenzione al lato etologico, in modo da assicurare appagamento a 360 gradi.

“Una buona gestione è quella che tiene conto anche del benessere psicologico del cane, perché se un individuo sano mostra comportamenti normali è più facilmente adottabile e non verrà restituito al canile. È sicuramente necessario da parte delle istituzioni fare una maggiore opera di prevenzione, per evitare che i canili si riempiano. Quando il cane è in canile, invece, bisogna da subito impostare un percorso di adattamento (o rieducazione) che parte ben prima della possibile adozione. I cani e le famiglie vanno preparati all’adozione. Per questo noi da tempo abbiamo iniziato un percorso pre-adottivo per i cani che saranno adottati e per le famiglie potenzialmente adottanti e forniamo loro un supporto per piccoli problemi anche dopo l’adozione. Inoltre formiamo sempre più volontari: sono loro lo strumento fondamentale per il benessere dei cani”.

Stando agli ultimi dati, in questo momento, in Italia risultano attivi 1.200 canili – 434 canili sanitari e 766 rifugi – , per il 44% dislocati nel Mezzogiorno. In questi canili vivono 15.000 cani, dei quali oltre 8.000 si trovano nelle strutture, spesso più fatiscenti e mal gestite, del Sud. Tra questi 15.000 non abbiamo modo di sapere quanti sono i depressi, quanti soffrono al punto da provocarsi ferite e lesioni, quanti si stanno lasciando andare. Quanti saranno adottati domani.


Leggi anche: La genetica del comportamento nel cane

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Sara Stulle
Libera professionista dal 2000, sono scrittrice, copywriter, esperta di scrittura per i social media, content manager e giornalista. Seriamente. Progettista grafica, meno seriamente, e progettista di allestimenti per esposizioni, solo se un po' sopra le righe. Scrivo sempre. Scrivo di tutto. Amo la scrittura di mente aperta. Pratico il refuso come stile di vita (ma solo nel tempo libero). Oggi, insieme a mio marito, gestisco Sblab, il nostro strambo studio di comunicazione, progettazione architettonica e visual design. Vivo felicemente con Beppe, otto gatti, due cani, quattro tartarughe, due conigli e la gallina Moira.