RICERCANDO ALL'ESTERO

Organi su chip per studiare i danni al cervello

Per capire meglio la fisiopatologia umana servono sistemi in grado di mimare la situazione reale di cellule e organi. Ed è qui che entrano in gioco gli organ-on-chip.

Gli organ-on-chip sono dei dispositivi integrati per la crescita tridimensionale delle cellule. Grazie alla loro microarchitettura e a tecnologie di microingegneria e di microfluidica, questi chip sono in grado di ricreare le condizioni e gli aspetti chiave degli organi viventi e di permettere alle cellule di vivere e crescere come se fossero all’interno di un organismo.

Negli ultimi anni, gli organ-on-chip hanno offerto nuovi approcci alla ricerca in medicina, biologia e farmacologia, soprattutto come promettente alternativa ai test sugli animali.

Rossana Rauti è alla Tel Aviv University per studiare la comunicazione cellulare all’interno di questi dispositivi, con particolare attenzione alle interazioni con il sistema vascolare, sia in seguito alla somministrazione di un farmaco sia in caso di danno.


Nome: Rossana Rauti
Età: 33 anni
Nata a: Catanzaro
Vivo a: Tel Aviv (Israele)
Dottorato in: neuroscienze e scienze cognitive (Trieste)
Ricerca: Organ-on-chip per gli screening farmacologici
Istituto: Biomedical Engineering, Tel Aviv University
Interessi: vela, surf, sto imparando l’ebraico
Di Tel Aviv mi piace: le spiagge, la gente è solare, è una città giovane e molto viva
Di Tel Aviv non mi piace: la confusione per strada, gli autobus
Pensiero: Si viaggia non per cambiare luogo, ma idea. (Hippolyte Adolphe Taine)


Come vengono costruiti gli organ-on-chip?

L’idea di base è ottenere delle piattaforme capaci di replicare, su microscala, l’ambiente naturale in cui si trovano le cellule umane all’interno di organi e tessuti specifici. Ciò implica riuscire a ricreare aspetti chiave come la microarchitettura, le interazioni cellula-cellula e il microambiente extracellulare. Il vantaggio degli organ-on-chip sta proprio nella presenza di un sistema di microfluidica, cioè di una sorta di vasi che mimano il più fedelmente possibile la fisiologia umana di cellule e organi irrorati dal flusso sanguigno.

Gli organ-on-chip vengono creati tramite stampanti 3D: in genere sfruttiamo come materiale di partenza i polimeri biocompatibili già in uso in clinica, per esempio nelle protesi, come il PDMS (polidimetilsilossano), assieme a una serie di resine, sempre biocompatibili. All’interno delle piattaforme possono anche essere inseriti degli elettrodi, in modo da misurare l’attività delle cellule; in questo caso si usano materiali conduttivi come nanotubi, stampati in forma di elettrodi.

L’obiettivo finale è avere uno strumento rapportato alla fisiologia umana su cui testare potenziali nuovi farmaci e osservare i cambiamenti morfologici e di attività in seguito a un trauma o un danno.

Che tipi di cellule studiate con gli organ-on-chip?

Si possono studiare tutti i tipi di cellule. Nelle nostre ricerche usiamo sia cellule staminali, che poi differenziamo in specifici tipi cellulari, sia cellule provenienti da pazienti con determinate malattie (Alzheimer, Parkinson, epilessia, coliti, …). In particolare seguiamo due progetti principali, uno per mimare la barriera ematoencefalica (BEE) e l’altro per creare un sistema multiorgano.

La barriera ematoencefalica è una struttura composta da diverse cellule, ciascuna con una funzione specifica, e per ricreare una situazione simile a quella fisiologica vanno considerate tutte e nel loro insieme. Al contrario dei modelli di BEE descritti finora in letteratura, che consistono in costruzioni di singoli tipi cellulari, la BEE-on-chip comprende sia neuroni che astrociti e cellule endoteliali; e, in più, tutto il sistema neurovascolare come in un organismo vero e proprio.

Il vantaggio sta proprio nel ricreare una situazione molto simile a quella in vivo, non in un animale ma in un sistema molto vicino a quello umano. Infatti, negli screening farmacologici si è visto che il 60% dei farmaci che funzionano nei modelli animali di ratto e topo poi falliscono quando si passa alla sperimentazione umana. Con una BEE-on-chip si può ovviare a questo problema e vedere come cambia il comportamento di un sistema simil-umano in risposta a un certo farmaco, come questo si distribuisce nei vari compartimenti, come le cellule comunicano tra loro.

E non solo. Con una BEE-on-chip possiamo capire in modo più dettagliato cosa succede alle cellule dopo uno stress fisico: negli Stati Uniti, tra i maggiori traumi a carico del cervello ci sono quelli dei giocatori di football e quelli dovuti a incidenti stradali. È possibile ricreare un danno simile inserendo nella piattaforma un sistema di nanoparticelle magnetiche e, con un magnete esterno, posizionarle nella zona di interesse: a questo punto si può valutare il cambiamento morfologico delle cellule, in dimensione o se gli assoni si staccano o si ingrossano, e la variazione di attività.

E per quanto riguarda il sistema multiorgano?

L’obiettivo è creare una piattaforma in cui alloggiare diversi organi, per vedere cosa succede a un sistema integrato dopo la somministrazione di un certo farmaco o l’induzione di un danno o trauma. Nel nostro caso vogliamo arrivare a dieci organi, come cuore, cervello, polmone, intestino, pancreas, … Per esempio, per il cuore, vogliamo mettere a punto una piattaforma di polimeri che, stimolata con dei magneti, possa mimare la contrazione dei muscoli cardiaci.

Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?

La tecnologia degli organ-on-chip è molto all’avanguardia e mi piacerebbe combinarla a materiali come i nanotubi di carbonio e il grafene. Si è visto, infatti, che queste strutture hanno tutta una serie di effetti benèfici sulle cellule: i nanotubi sono in grado di aumentare la loro sopravvivenza in caso di trauma o stress e possono regolare la formazione delle sinapsi cerebrali. Il grafene, invece, è un materiale più nuovo e le sue proprietà sono meno note ma poiché ha caratteristiche simili ai nanotubi, come l’alta conducibilità e la trasparenza, si sta studiando anche la sua capacità di indurre un miglioramento sui sistemi cellulari.

Durante la stampa 3D dei dispositivi, si potrebbe pensare di aggiungere ai polimeri una polvere di nanotubi in modo tale che la piattaforma finale sia un mix di entrambi i materiali e che le cellule crescano direttamente a contatto con queste nanostrutture.


Leggi anche: La placenta su chip

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Luisa Alessio
Biotecnologa di formazione, ho lasciato la ricerca quando mi sono innamorata della comunicazione e divulgazione scientifica. Ho un master in comunicazione della scienza e sono convinta che la conoscenza passi attraverso la sperimentazione in prima persona. Scrivo articoli, intervisto ricercatori, mi occupo della dissemination di progetti europei, metto a punto attività hands-on, faccio formazione nelle scuole. E adoro perdermi nei musei scientifici.