CULTURA

I concerti possono essere ecosostenibili?

Al noto festival di Glastonbury, nel 2019, sono stati vietati gli oggetti monouso e non biodegradabili. Dopo decenni di eventi ad alto impatto ambientale, anche per la musica si cerca un cambiamento, ma a volte è solo uno specchietto per le allodole.

Yannis Philipakis al festival di Glastonbury 2019. Fotografia di Simoncromptonreid, CC BY-SA 4.0

A una decina di chilometri da Glastonbury, cittadina nella contea del Somerset in Inghilterra, dai primi anni ’70 si tiene un festival musicale, più o meno in concomitanza con il solstizio d’estate. Il Glastonbury Festival of Contemporary Performing Arts è un ormai un riferimento per gli appassionati di musica e storia del rock. Nato nel 1970, in una data in questo senso assai simbolica, il giorno dopo la morte di Jimi Hendrix – anche se le sue radici affondano all’inizio del secolo scorso – il festival di Glastonbury è un appuntamento annuale fisso dagli anni ’80.

L’edizione di quest’anno ha goduto della partecipazione di un ospite d’eccezione, il naturalista e popolare divulgatore scientifico britannico David Attenborough. La presenza di Attenborough non è stata casuale, visto che gli organizzatori di uno dei più grandi festival all’aperto si sono ripromessi di dare a quest’edizione una veste particolarmente green. Per esempio, è stato vietato l’uso di bottiglie e bicchieri di plastica monouso, di salviette e altri oggetti non biodegradabili, mentre si è incoraggiata la scelta dei mezzi di trasporto pubblici per raggiungere il sito. Inoltre, a margine dei concerti sono stati messi in programma eventi di supporto ai movimenti di protesta contro le politiche sorde ai cambiamenti climatici.

Concerti rock, da happening a incubo per l’ambiente

In effetti, l’immagine del campo di Glastonbury a fine festival nel corso degli anni non è stata di particolare esempio per una gestione attenta e sostenibile delle risorse e degli spazi comuni. Solo nell’edizione 2017, segnala The Guardian, sono stati lasciati sul “campo di battaglia” 1,3 milioni di bottiglie di plastica vuote, per non parlare del consumo e sperpero di acqua e cibo. E Glastonbury non è certo l’unico caso di spreco e inquinamento, seppur circoscritto. Di contro, proprio nel mondo del rock si contano molti artisti impegnati in battaglie di sensibilizzazione per l’ambiente, in particolare per contrastare i cambiamenti climatici, cominciando da una autoregolamentazione interna tra colleghi.

La battaglia di sensibilizzazione ambientale si combatte su più fronti: quanto pesa realmente il contributo dei concerti e festival rock?

Per come sono organizzati e nel modo in cui sono gestiti, i tour dei concerti rock sono indubbiamente una imponente macchina energivora. Il consumo è ovviamente più preoccupante per le carovane dei nomi più in vista, delle rock star più famose e “leggendarie”, ovvero i rocker in grado di riempire stadi, arene, auditorium con decine se non centinaia di migliaia di spettatori. In una simulazione datata 2012 effettuata dalla Stanford University, facilmente rintracciabile in rete, si prova a calcolare il consumo di un concerto della band britannica dei Radiohead.

Supponendo un paio d’ore di esibizione per 100mila persone, l’impianto di amplificazione consumerebbe 0,45 GJ (1 GJ = 109 J), mentre l’impianto luci 0.23 GJ. Il pubblico presente, invece, solo per aver viaggiato fino alla località del concerto, arriverebbe a consumare ben 4,2 TJ di energia (1 TJ = 1012 J). Quest’analisi un po’ “fumettistica”, come confessano gli stessi autori, è un’estensione di un’altra precedente, del 2007, con focus sull’impronta emissiva degli spostamenti per i concerti. Oggetto della simulazioni sempre i Radiohead, analoghe le conclusioni: il distacco tra il consumo energetico della band e quello del pubblico è vistoso e incolmabile.

Sebbene i consumi dei Radiohead siano comunque consistenti, è sostanziale anche la differenza con altre band, si fa notare. C’è una ragione legata alla scelta di questa band come oggetto di studio: proprio i Radiohead sono stati infatti forse i primi, a metà degli anni ’00, quando la battaglia contro i cambiamenti climatici era ancora relativamente di nicchia, a fare mea culpa e lanciare un’agguerrita battaglia contro il sistema sprecone del mondo rock. Nel frattempo, i consumi della band saranno forse anche calati, ma nel complesso i concerti, i tour e i festival rimangono ancora particolarmente energivori.

Fare attenzione ai trasporti (e al greenwashing)

Secondo uno studio del 2007, l’industria musicale nel suo complesso, considerando solo l’UK, è responsabile di una bella fetta di emissioni e carbon footprint in generale. In quegli anni, il 75% di queste era prodotta solo dalle esibizioni live, delle quali il 43% imputabile ai trasporti degli spettatori. Uno studio più mirato e più recente dell’Università del Quebec pubblicato sul Journal of Cultural Economics valuta quando e come possono essere applicati i carbon offset – ovvero le compensazioni di carbonio emesso stimabile in situazioni come i viaggi o i concerti appunto – in modo realmente efficace.

Per una band di media importanza, valutano i ricercatori canadesi, il consumo di un tour di quattro date è pari a circa 200-250 Kg di CO2 emesse in atmosfera, considerando solo il pubblico. Dati piuttosto variabili in base all’entità degli eventi, ma che tengono conto di tutte le variabili per i trasporti possibili e che consentono di stimare, anzi monetizzare, gli offset. In sintesi questo sistema – ovvero chiedere al pubblico un incremento sul biglietto da spendere in operazioni di compensazione del carbonio – può anche funzionare, ma solo se a chiederlo è qualcuno che dimostra di saper agire bene, oltre che predicare. In questo senso, dice lo studio, i Radiohead sono un esempio virtuoso, mentre gli irlandesi U2 sono il classico caso di greewashing, ovvero hanno spesso sfruttato il tema ambiente solo per un ritorno di immagine, ma il loro contributo alla causa è in realtà nullo.

Ci sono poi i casi di progetti di offset non andati a buon fine, come quando i Coldplay fallirono nel tentativo di piantare alberi di mango in India per compensare le emissioni dei loro concerti, oppure casi poco chiari e molto discussi, come la scelta dei Rolling Stones nel 2003 di donare il 15% in più sui biglietti a Future Forests, compagnia che in realtà di alberi non ne piantava affatto e che dichiarava di investire gli introiti in non meglio definite campagne di sensibilizzazione ambientale.

Ancora più complicata sarebbe la stima di quanti rifiuti hanno prodotto nel tempo i concerti rock. Se solo Glastonbury, che si è candidato quest’anno a guidare un rinnovamento in questo senso, ha alle spalle più di 40 anni di eventi festosi ma spreconi, già la madre di tutti festival poteva essere considerata un simbolo (anche) per il mancato smaltimento di rifiuti: i 350mila spettatori della mitica tre giorni di Woodstock, che terminò il 18 agosto di 50 anni fa esatti, lasciò nel fango di Winston Farm a Bethel, nello stato di New York, 1400 tonnellate di immondizia, 600 delle quali erano ancora lì sepolte nel 1994, in concomitanza con il primo grosso concerto-anniversario.

Il mondo dei rockers, insomma, lascia da sempre un’impronta non indifferente sull’ambiente, e ne è consapevole. Qualcuno prova a cambiare le cose, ma tra i palchi aleggia sempre lo spettro del greenwashing.

I rockers eco-friendly

Se la nascita dell’ambientalismo moderno si può datare al 1962, con la pubblicazione di Primavera silenziosa di Rachel Carson, si può ben dire che la musica rock che iniziava a muovere i primi passi in quegli anni, ha accompagnato fin da subito le cause ecologiste grazie a molti artisti e band di successo. Grandi classici – alcuni non così famosi per essere brani ambientalisti –  sono “Big Yellow Taxi” di Joni Mitchell (1970, ispirata a un suo viaggio alle Hawaii in una località che rischiava di essere coperta da un parcheggio), “Mother’s Nature’s Son” dei Beatles (1968, un elogio alla bellezza e alla spiritualità della natura), “Mercy Mercy Me (The Ecology)” di Marvin Gaye (1971), “Before the Deluge” di Jackson Browne (1974), “Licence to Kill” di Bob Dylan (1983, dove la licenza di uccidere è quella che si è dato l’uomo si è dato da solo con la natura).

Oppure di artisti più contemporanei e più specificamente dedicati alla crisi climatica, “Things It Would Have Been Helpful To Know Before The Revolution” di Father John Misty (2017), “Manifest” di Andrew Bird (2019). La lista è lunga, come tanti sono i casi di partecipazione attiva, da Woody Guthrie ai Pearl Jam, passando per Bjork e i “meat-free mondays” di Paul McCartney, rockers diventati attivisti nel corso di questi decenni – per la verità anche da molto prima, se si considera anche “Woodman! Spare that Tree!“, pietra miliare di George Morris and Henry Russell datata 1837.

In generale, tutte le produzioni e le iniziative artistiche-musicali contribuiscono in qualche modo a tenere viva l’attenzione e magari alimentare il dibattito. Per capire se qualcuno di questi artisti pecca di greenwashing, bisognerebbe indagare caso per caso i comportamenti, virtusi o meno. Attenendoci alle conclusioni di chi ha studiato il fenomeno e il suo reale effetto sull’ambiente, sono in definitiva tre i criteri base da tenere d’occhio ai concerti e nelle abitudini e proposte delle rockstar: emissioni di CO2 da consumi elettrici e trasporti; inquinamento da rifiuti e acustico; approvvigionamento e consumo di cibo e bevande. I casi “affidabili”, a quanto pare, non mancano. Qualche esempio:

In testa i Radiohead, ovviamente, che dagli autobus e i camion alimentati a biofuel fino al consumo zero di plastica, non concepiscono alternativa che non sia a impatto zero per i loro tour. Tom York, il leader, ha in passato dichiarato che preferirebbe fermare le esibizioni live. Fanno anche parte della campagna Friends of the Earth.

Sheril Crow, che sostiene di aver risparmiato circa 750 tonnellate di CO2 solo nel suo tour del 2010, grazie al biodiesel, al catering compostabile e a varie forme di riciclo durante le permanenze del tour. Ha collaborato con una compagnia di car-sharing (ZimRide) per ridurre gli sprechi del pubblico e ha fatto parte di StopGlobalWarmig.org.

Don Henley degli Eagles ha creato e finanziato con parte dei proventi dei suoi concerti e dischi il Walden Woods Project e il Caddo Lake Institute, dove si fa ricerca in ecologia e si preserva l’unico lago naturale del Texas.

I Pearl Jam hanno donato nel 2006 100mila dollari a nove organizzazioni che lavorano sulle energie rinnovabili e lo studio dei cambiamenti climatici. Sono attivi da più di 20 anni sul fronte ambientalista, molto in vista la loro protesta nel 2010 per il disastro ambientale della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. Nello stesso anno, i Green Day hanno stretto una collaborazione con il Natural Resources Defence Council degli Stati Uniti per la campagna “Move America beyond Oil“.

La Dave Matthews Band, oltre ad aver donato più di 8 milioni di dollari a varie associazioni nel corso degli anni, dal 2009 coltiva un progetto per rendere attivi i fan, i quali ricevono dei pass gratuiti ai concerti se decidono di impegnarsi in iniziative ecologiche pratiche di cui si parla a margine dei concerti, oltre ad essere sollecitati al carpooling per ridurre i consumi di carburante.

In Italia, in questi mesi, gli occhi sono puntati sul molto discusso tour di Lorenzo Jovanotti, accusato proprio di condurre un tour tutt’altro che green nonostante faccia dell’attenzione per l’ambiente il proprio baluardo. Intanto, buone notizie da Glastonbury: i numeri sono incoraggianti, quasi nessuna tenda è rimasta sul suolo a fine festival, anche se bisogna lavorare ancora un po’ per il plastic-free 100%. L’ideale sarebbe avere finalmente delle norme ufficiali, e condivise, per una gestione davvero green del rock, e per evitare che il rispetto per l’ambiente venga usato solo come specchietto per le allodole, senza azioni concrete prima, durante o dopo gli eventi.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.