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Conflitti tra esseri umani e fauna selvatica: non ci sono solo i predatori

Lupi, tigri, leoni. Sono i primi che vengono in mente, ma quando condividiamo il territorio con altri animali i rapporti si fanno difficili anche con specie più inaspettate.

Australia, un cinghiale mangia un agnello che ha predato. Fotografia di Dr. Peter Heise-Pavlov

L’espandersi della popolazione umana ha in molti casi esacerbato il conflitto, da sempre presente nella storia della nostra specie, tra noi e la fauna selvatica. Anche in Italia la convivenza tra esseri umani e lupi oppure orsi si sta rivelando spesso difficile; tuttavia, la mitigazione del conflitto è fondamentale per la conservazione di molte specie.

La maggior parte dell’attenzione per questi “rapporti difficili” si è focalizzata, sia in termini di studi sia in termini di politiche gestionali, sui grandi predatori; uno studio recentemente pubblicato su PLOS Biology richiama l’attenzione anche ai conflitti legati a specie non carnivore. Secondo gli autori, infatti, le politiche di protezione del bestiame andrebbero estese anche a specie quali elefanti e cinghiali: ciò consentirebbe una miglior comunicazione con le comunità per quanto riguarda le strategie più efficaci, e una maggior applicazione di tali strategie. Questo, oltre a mitigare gli effetti del conflitto tra gli esseri umani e la fauna selvatica, permetterebbe – almeno nel caso dell’elefante – anche di tutelarne la popolazione.

Cinghiali, elefanti e danni al bestiame

Quando pensiamo al conflitto tra la nostra specie e la fauna selvatica, la mente corre ai grandi predatori come i lupi o le tigri. La minaccia che questi animali pongono agli allevamenti, e in alcuni casi anche alla sicurezza degli esseri umani, è infatti uno degli elementi che rende più difficile la convivenza. Anche specie non carnivore, tuttavia, possono danneggiare il bestiame. Un articolo del 2007 analizzava quali fossero gli animali che più di frequente compivano predazioni sugli allevamenti al di fuori del Serengeti National Park in Tanzania: per lo 0,4% dei casi, il responsabile era il babbuino giallo (Papio cynocephalus), più del leone e dello sciacallo, entrambi responsabili solo dello 0,1% delle predazioni.

Anche uccelli come le aquile, gli urubù e i corvidi possono predare il bestiame. Nel loro studio, Shari Rodriguez e Christie Sampson, della Clemson University, si sono concentrati sui danni agli allevamenti che possono causare gli elefanti (sia asiatici sia africani) e i cinghiali.

Entrambi questi animali possono infatti ferire o uccidere il bestiame, anche se per ragioni diverse. Gli elefanti non sono certo predatori, ma possono fare incursioni in cerca di cibo (soprattutto riso e tamarindo) nelle abitazioni o nei depositi umani e, come danno collaterale, uccidere bovini e pollame, oltre a danneggiare le infrastrutture. I cinghiali, invece, sono onnivori: possono predare il bestiame in modo attivo, come testimoniano gli studi sulla predazione degli agnelli da parte dei cinghiali in Australia. Inoltre, contribuiscono alla perdita di bestiame con la trasmissione di alcune malattie. Il conflitto tra esseri umani, cinghiali ed elefanti è anche legato alla capacità di questi ultimi di depredare e distruggere le coltivazioni.

Maggior attenzione per le strategie di prevenzione

Il conflitto con le comunità che ne deriva, scrivono gli autori, può determinare anche un cambiamento nella percezione delle specie e, anche se la conservazione del cinghiale non desta particolari preoccupazioni, non si può dire altrettanto per quanto riguarda gli elefanti. Il rischio è dunque che il conflitto tra le comunità interessate e gli elefanti finisca anche per mettere a rischio gli sforzi di conservazione per la specie.

Secondo Rodriguez e Sampson, dunque, è necessario che nelle politiche di protezione del bestiame siano comprese anche le specie non carnivore, per le quali, comunque, le strategie di protezione sono spesso sovrapponibili a quelle usate per i grandi predatori. «Condividere le esperienze tra i diversi gruppi di animali e adottare una metodologia che si sia rivelata efficace per le altre specie ci potrebbe aiutare a migliorare gli strumenti che abbiamo a disposizione per promuovere la co-esistenza e, per quanto riguarda gli elefanti, gli sforzi di conservazione», spiega Sampson in un comunicato.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.