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Vivere senza sentire tra pregiudizi, pietismo e poca inclusione

“Non ho mai davvero accettato la mia condizione, perché non ho mai sentito di avere davvero pari opportunità". La storia di Anna Maria.

Anna Maria durante le riprese per AccessibItaly, un progetto che vuole promuovere il turismo accessibile e la partecipazione delle persone sorde alla vita cultura del Paese. Fotografia: Ente Nazionale per la protezione e l’assistenza dei Sordi – Onlus (ENS)

A un certo punto, mentre comunichiamo, l’interprete di Anna Maria deve rispondere a una telefonata e vedo che lei, dall’altra parte della videochat, continua a parlarmi nella lingua dei segni. Mi guarda negli occhi e mi è proprio chiaro che mi sta parlando sapendo bene che l’interprete non mi sta traducendo il suo linguaggio. Sono imbarazzata, disorientata, non capisco cosa mi vuole dire, e mi sento a disagio perché posso solo guardarla con espressione dispiaciuta scuotendo mani e testa. Mi rendo anche conto che il mio dispiacere ha quel filo sottile di senso di colpa che non dovrebbe avere.

Poco dopo l’interprete ritorna, e Anna Maria mi dice con un sorriso caldo, che voleva proprio che vivessi in prima persona quell’imbarazzo, per farmi intuire la sensazione che una persona sorda ha spesso ancora oggi nella sua vita quotidiana e in particolare sul lavoro. Ci sei riuscita eccome, Anna Maria. E te ne sono grata.

“Non ho mai sentito di avere davvero pari opportunità”

Sono tanti i “dopo ti spiego” che Anna Maria Salzano ha ricevuto in vent’anni come programmatrice informatica in diverse aziende. C’è la volta in cui si accorge che tutti i suoi colleghi si sono improvvisamente alzati e lei non sa perché, non sa dove sono e ha paura che si tratti di un allarme che non ha sentito. E invece è una riunione dell’ultimo minuto di cui nessuno l’ha informata. Ci sono poi i meeting in cui Anna Maria si sente come un corridore sempre venti metri indietro rispetto agli altri. Si fanno battute, si scherza e lei ne è esclusa. Gli interpreti alle riunioni costano, e chi li paga?

Ci sono tecnologie di ultima generazione come gli avatar, che traducono automaticamente la voce in linguaggio dei segni. A me, ingenuamente, sembra una buona soluzione, ma Anna Maria mi spiega che non è così per un sordo, perché un avatar manca della cosa più importante: l’espressività corporea, facciale. “È solo un aiuto a metà. Il vero passo in avanti è guardarsi fra persone, porsi nello sguardo dell’altro, voler cercare una connessione”. Mentre me ne parla non posso non riflettere sul fatto che questa barriera empatica non riguarda solo condizioni fisiche come la sordità. Forse è lo stesso elemento che ci porta spesso a non notare le difficoltà di una qualsiasi persona che abbiamo accanto.

“Sinceramente non ho mai davvero accettato la mia condizione, perché non ho mai sentito di avere davvero pari opportunità rispetto ad altri colleghi pur sentendomi identica a qualsiasi altro come capacità. Sul lavoro ogni compito che mi veniva assegnato era di supporto a qualcun altro: fare fotocopie, apporre etichette, catalogare… non mi sono mai sentita parte di un team, di una squadra, ed è questo che spesse volte mi ha fatto versare lacrime. Sono una persona piena di energia, idee, ho studiato, ma è come se ci fosse un vetro oscurato fra me stessa e la persona che doveva darmi fiducia.”

Oggi Anna Maria si occupa dei progetti presso la Sede Centrale dell’Ente Nazionale Sordi, come i progetti MAPS e AccessibItaly, per fare in modo che anche le persone sorde possano usufruire di guide – non chiaramente audio ma video – e altri servizi per poter partecipare alla vita culturale come tutti gli altri. “C’è poi il pietismo, che mi fa incredibilmente arrabbiare e che è sintomo di pregiudizio, che le persone sorde siano di per sé in difficoltà a fare le cose”. Io stessa mi chiedo, rispetto all’episodio citato in apertura, se avrei avuto la stessa reazione imbarazzata davanti a una persona udente che semplicemente mi parla in una lingua che non conosco.

Sordità e pregiudizi

“La persona sorda non ha alcun deficit se non il fatto che non sente, eppure ancora nel 2019 i pregiudizi sono molti, e per questo dedico molte energie, soprattutto ora che lavoro presso l’Ente Nazionale Sordi, a spiegare che il mondo dei sordi non è una limitazione”. Alla fine prendo coraggio e le chiedo se esistono ancora oggi dei pregiudizi sulla possibilità di fare dei figli fra persone sorde. Ci sono, purtroppo, e sempre infondati. “Anzitutto perché non è detto che figli di due sordi nascano sordi” mi spiega. Anna Maria stessa è sposata con un uomo anch’egli sordo e hanno due figli, entrambi udenti. “Ma soprattutto il punto è che anche se fosse, essere sordi è solo una caratteristica fisica che può permettere di realizzarsi come una persona udente”.

La cosa più importante che imparo nella nostra chiacchierata è che è una percezione sbagliata pensare che il miglior approccio alle persone sorde sia fare di tutto per far loro udire almeno qualche cosa. A partire dalla classe medica. “È piuttosto comune che, al momento della diagnosi di sordità, si proponga in automatico una presa in carico del bambino per un intervento di impianto cocleare” mi spiega Anna Maria. Si tratta in sostanza di una neuroprotesi diversa dalle comuni protesi acustiche come quelle che utilizzano molti anziani. L’impianto cocleare è un “orecchio artificiale” elettronico in grado di ripristinare la percezione uditiva nelle persone con sordità profonda, inviando direttamente al nervo acustico linguaggio e rumori ambientali.

Non tutti i sordi sono uguali: l’importanza della lingua dei segni

“Il punto è che non tutti i sordi sono uguali e non è detto che scegliere in partenza l’impianto sia il supporto migliore nella crescita di tutti i bambini” mi spiega. “Ci sono persone per le quali l’impianto migliora pochissimo la cognizione, la possibilità di espressione e quindi la relazione con gli altri.” In tanti casi imparare perfettamente la lingua dei segni può portare a benefici infinitamente migliori in termini di espressione. Per Anna Maria per esempio è andata così.

Da sempre “sorda profonda”, una sordità nel suo caso di origine genetica dal momento che tutta la sua famiglia è sorda con la protesi uditiva può al massimo sentire qualche suono, per esempio l’ambulanza, ma non le permette di distinguere tutte le lettere, per esempio la n e la m, la s e la z. “La mia lingua madre, la mia lingua del cuore è la lingua dei segni” mi racconta. “Grazie alla lingua dei segni, che è tutto fuorché semplice, io riesco a comunicare tutte le mie emozioni, le mie opinioni, a relazionarmi profondamente con la persona che ho davanti”. Confermo: mentre me lo dice mi è evidente il forte grado di espressività di Anna Maria.

Una parentesi va fatta sul fraintendimento che la lingua dei segni sia un linguaggio tutto sommato semplice da imparare. Io per prima, ancora una volta ingenuamente, le chiedo se non sarebbe utile che i bambini imparassero i rudimenti della lingua dei segni a scuola, per prendere coscienza di questo mondo. La risposta di Anna Maria è puntuale: può essere un primo contatto, ma la lingua dei segni ha una sua grammatica, una sintassi, esattamente come le lingue orali, e non bastano poche ore per poter comunicare. È come se pretendessimo di dialogare in tedesco con una persona con un livello A1. “Ci sono diversi corsi, anche online, di 20 ore che dicono di poter insegnare la nostra lingua, ma non è così, e noi come associazione ci arrabbiamo molto perché per noi è un danno questa banalizzazione”.

L’integrazione vera è ancora in divenire, anche a scuola. Anna Maria, che ha quarant’anni, ha frequentato a suo tempo un collegio speciale, ma non lo consiglia affatto. “Una volta fuori dalla scuola mi sono ritrovata in un mondo sconosciuto e a me ostile. L’integrazione si impara dalla scuola, ma purtroppo ancora oggi i bambini sordi non possono sempre usufruire delle stesse opportunità dei bambini udenti, per mancanza di personale che copra tutte le ore scolastiche”, conclude Anna Maria. “Se non impariamo a vedere la sordità non unicamente come una caratteristica fisica, non potremmo davvero cambiare le cose.”

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.