AMBIENTE

Incendi: quali sono i parametri che li influenzano?

Dal Sud America alla Siberia quest'estate abbiamo sentito molto parlare di incendi. Emanuele Lingua, professore associato del Dipartimento del territorio e sistemi agro-forestali dell'Università di Padova, ci spiega i fattori che influenzano gli incendi

Gli incendi non sono tutti uguali: diversi parametri entrano in gioco nel determinarne frequenza, intensità e velocità. Sono, queste, caratteristiche che ne influenzano la propagazione e quindi, a seconda del luogo in cui l’incendio si è sviluppato, il potenziale impatto per le persone, le infrastrutture e gli edifici, per gli ecosistemi. Si tratta di elementi che interagiscono tra loro, influenzandosi a vicenda, anche se può essercene uno che, più degli altri, determina il comportamento assunto dal fuoco. Dopo un’estate in cui gli incendi hanno fatto molto parlare di sé (ne abbiamo parlato qui, qui e qui), vale la pena andare a vedere più da vicino quali sono questi parametri. Ne parliamo con Emanuele Lingua, professore associato del Dipartimento del territorio e sistemi agro-forestali dell’Università di Padova, dove insegna Gestione degli incendi e dei disturbi di natura abiotica.

I fattori meteorologici

Per chi si occupa d’incendi forestali, il primo elemento cui prestare attenzione è il vento, la cui presenza influenza in modo diretto il fronte di fiamma e la sua propagazione. «Il vento apporta comburente, ossia l’ossigeno che consente la combustione del materiale e, piegandola, avvicina la fiamma al combustibile. Inoltre, consente il pre-riscaldamento del combustibile, cioè la vegetazione», spiega Lingua. «In pratica, la massa d’aria calda si sposta orizzontalmente, invece di salire e disperdersi nell’atmosfera come avverrebbe in mancanza di vento. In questo modo, riscalda la vegetazione, viva o morta, determinandone la disidratazione e facendo sì che, all’arrivo della fiamma, sia pronta a prendere subito fuoco».

Il pre-riscaldamento è una fase importante per lo sviluppo degli incendi boschivi, perché rende il materiale infiammabile: finché è presente l’acqua, la temperatura non sale abbastanza da consentire lo sviluppo delle fiamme. Ma quando il combustibile è secco, la temperatura aumenta e si va incontro a pirolisi, una degradazione termica di materiale organico che avviene in assenza di ossigeno. La pirolisi determina la formazione di composti volatili altamente combustibili: le fiamme che vediamo durante gli incendi sono proprio il materiale gassoso che brucia. «In presenza di vento, tutta la fase di pre-riscaldamento è accelerata, e gli incendi più veloci sono anche quelli più intensi e distruttivi», spiega ancora il professore. «Inoltre, la sola presenza del vento in assenza di fuoco fa sì che quello che chiamiamo combustibile fine (aghi, rametti, erba e così via) sia più disidratato. Per questa ragione, le giornate secche in cui soffia il Föhn, un vento asciutto, sono quelle da monitorare con più attenzione per il rischio d’incendi sulle Alpi».

A tutto ciò, si aggiunge il fatto che il vento può causare fenomeni di spotting, sollevando il materiale in combustione e trasportandolo lontano, determinando così lo sviluppo di focolai secondari.

Gli altri due parametri meteorologici valutati per capire quale sia il rischio che si sviluppi un incendio e cercare di stabilirne la potenziale pericolosità sono le precipitazioni (pioggia, ma anche neve), la temperatura e l’umidità relativa dell’aria. Nessuno di questi parametri agisce in modo diretto sullo sviluppo dell’incendio, ma sono tutti fattori predisponenti. «Tanto la temperatura dell’aria quanto le precipitazioni e l’umidità relativa influenzano direttamente il contenuto di umidità del combustibile, indicato con il termine inglese fuel moisture content. Quindi, pur non agendo direttamente sulla propagazione del fronte di fiamma, influenzano il rischio che l’incendio si sviluppi», spiega Lingua.

I dati meteorologici per il monitoraggio e la previsione

I parametri meteorologici sono utilizzati dai modelli matematici che consentono di stabilire se una determinata area è a rischio d’incendio. A livello europeo è impiegato lo European Forest Fire Information System (indicato dalla sigla EFFIS) che, sulla base delle informazioni riguardanti vento, umidità dell’aria, temperatura e precipitazioni raccolte dalle stazioni al suolo, fornisce un indice di pericolosità. «In pratica, questo sistema è usato per stabilire quanto, a quelle specifiche condizioni meteorologiche, potrebbe essere pericoloso un incendio. Non tiene in conto le possibili cause d’innesco, che sarebbero estremamente complicate da valutare, ma presenta degli indici usati per calcolare, ad esempio, quanto è disidratato il combustibile fine, un parametro influenzato appunto dai fattori meteorologici», spiega Lingua.

Questo sistema, fornisce quindi indici di pericolosità basati sui parametri che cambiano nel breve periodo. Ma il comportamento del fuoco è legato anche ad altri fattori, più stabili nel tempo.

I fattori orografici e l’esposizione

«Quando si valuta il comportamento di un incendio, bisogna considerare che questo procede più velocemente, e può quindi aumentare di intensità, in salita. Ecco perché la pendenza della zona in considerazione è un parametro fondamentale da valutare», spiega il professore. «La maggior velocità del fronte di fiamma in salita dipende da due ragioni. La prima è che le fiamme sono più vicine al combustibile a monte; la seconda ragione è che l’aria calda tende a salire, per cui in pendenza si crea una sorta di corrente che sale lungo il pendio, pre-riscaldando il materiale a monte».

Le caratteristiche del territorio hanno anche effetti indiretti sulla propagazione dell’incendio. L’orografia influenza infatti il vento, creando turbolenze e incanalandolo facendolo aumentare di velocità. Quando s’incanala in valli strette si può creare il cosiddetto “effetto camino”: come nel tiraggio di un camino, l’aria crea una forte corrente ascensionale che accelera la propagazione del fronte di fiamma. Inoltre, nel nostro emisfero, i versanti esposti a sud sono quelli più caldi, nei quali il combustibile si disidrata prima. «In particolare, sono le esposizioni a sud-ovest quelle che preoccupano di più: sono a sud, per cui l’irraggiamento è massimo, e inoltre il sole vi arriva nel pomeriggio, quando l’aria è già calda e più secca», continua Lingua. «Non a caso, nelle aree esposte a sud sono maggiormente presenti le specie vegetali adattate ad ambienti più caldi e asciutti».

La vegetazione

Sono proprio le specie vegetali il terzo e fondamentale parametro da considerare quando si parla d’incendi. La varietà del mondo vegetale è ampissima, e ciascuna specie ha un suo particolare rapporto con il fuoco. E può stupire sapere che alcune di esse lo apprezzano molto, almeno a certe condizioni.

«Sulla propagazione dell’incendio influisce innanzitutto il carico di combustibile, ossia la quantità di biomassa. Il materiale fine brucia in fretta ma a bassa intensità, mentre un carico elevato può creare incendi di notevole energia. Alle valutazioni sul carico bisogna poi associare la distinzione tra il combustibile vivo, ricco d’acqua, e quello morto e secco: nel primo caso è quindi necessaria molta energia nella fase di pre-riscaldamento per disidratare il materiale vegetale e far partire la combustione; nel secondo, invece, la vegetazione è praticamente già pronta a bruciare, soprattutto se fine; basta pensare a quanto facilmente prende fuoco l’erba secca», spiega Lingua. «È per questa ragione che dopo un incendio di chioma, ossia quando il fuoco interessa la chioma degli alberi, troviamo il tronco e i rami più grossi intatti».

«Alcune piante, poi, sono più prone a prendere fuoco perché contengono resine o olii essenziali contenenti terpeni altamente infiammabili», continua Lingua. «Queste sostanze agiscono come la benzina, incendiandosi a temperature inferiori rispetto ad altri composti e generando molto più calore; a sua volta, questo contribuirà al pre-riscaldamento della vegetazione, facilitando l’avanzamento del fuoco». Un esempio di pianta altamente infiammabile, e sfortunatamente a lungo usata per il rimboschimento, è l’eucalipto, una specie aliena e proveniente dall’Australia. È sfruttato soprattutto per la produzione di carta, ma anche di olii essenziali, gli stessi che ne determinano l’infiammabilità: l’incendio del 2017 di Pedrógão Grande, in Portogallo, è stato correlato proprio all’ampia diffusione di questa specie.

D’altra parte, diverse specie presentano tratti adattativi che le avvantaggiano in presenza di un incendio. Alcune piante, ad esempio, rilasciano i semi solo grazie al fuoco, una condizione definita serotinia: è il caso dell’eucalipto, ma anche del nostrano pino di Aleppo, i cui coni (volgarmente detti pigne) si aprono solo a seguito di un incendio. Sono molte le piante della macchia mediterranea che presentano questi tratti. Un altro esempio è il corbezzolo, in grado di ricacciare rapidamente dopo il passaggio del fuoco, riproducendosi per via agamica.

Gli incendi sono un elemento del tutto naturale nella modellazione del paesaggio naturale, e non ci deve stupire che alcune piante siano in grado di conviverci o addirittura sfruttarlo; come OggiScienza ha ricordato qui, questo vale anche per alcuni animali. «Il problema è che le diverse piante non sono adattate agli incendi in assoluto, bensì a determinati regimi d’incendio: eventi, quindi, che avvengono con una determinata frequenza, con un’intensità caratteristica e che bruciano un certo tipo di combustibile», spiega Lingua. «Ma se le caratteristiche degli incendi cambiano, come avviene a causa delle attività umane e dei cambiamenti climatici (comunque strettamente correlati), le piante possono non essere più in grado di affrontarli. Ad esempio, una pianta può essersi adattata a incendi che avvengono ogni cinquant’anni, raggiungendo la maturità intorno a quell’età; ma se gli incendi avvengono con maggior frequenza, quando arrivano la pianta non sarà ancora abbastanza sviluppata da poter disseminare».


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

 

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.