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Passato e presente della diffusione dell’HIV

Uno studio ci aiuta a capire quanto e come è mutato il virus dell'HIV in tutti questi anni

Un gruppo internazionale di ricercatori, guidati da Michael Worobey della University of Arizona, in collaborazione con il Dipartimento di Anatomia patologia dell’Università di Kinshasa, è riuscito a ricostruire l’intero genoma di un virus dell’immunodeficienza acquisita, HIV-1, partendo da un campione biologico – un linfonodo conservato in una soluzione di paraffina – di un paziente ricoverato nell’ospedale della capitale della Repubblica Democratica del Congo nel 1966.

Lo studio, pubblicato in preprint su bioRxiv, è il frutto di un lavoro di ricerca durato cinque anni e finanziato, tra gli altri, dal National Institute of Health (NIH), dall’European Research Council (ERC) e dal Research Foundation – Flanders (FWO), un ente di ricerca belga.

Il contesto

L’Africa subsahariana è l’area del nostro pianeta con il maggior numero di casi di HIV, tuttavia gli studi di filogenetica relativi a quest’area geografica sono inferiori rispetto a quelli fatti negli Stati Uniti e in Europa. Per colmare questo divario, dal 2013 la Bill&Melinda Gates Foundation sta finanziando il consorzio PANGEA-HIV, coinvolgendo alcune tra le più importanti istituzioni di ricerca al mondo, come la John Hopkins University e la London School of Hygene and Tropical Medicine, e concentrando le ricerche su alcuni Paesi dell’Africa: Botswana, Kenya, Tanzania, Uganda, Zambia e Sudafrica.

Lo studio del genoma di HIV è il metodo di ricerca per classificare il virus, e per capire la sua diffusione nel mondo. Rappresenta, per i ricercatori, un aiuto nello sviluppo della prevenzione della trasmissione dell’infezione con i farmaci antiretrovirali e i vaccini. Utilizzando tecniche sequenziamento genomico, come Next Generation Sequencing (NGS), gli studiosi hanno analizzato, sia in questo studio sia in un precedente apparso su Nature nel 2008, migliaia di campioni relativi al periodo degli anni Sessanta del secolo scorso, trovando in questa più recente ricerca solo un caso. “Questo significa che il virus era ancora poco diffuso all’epoca” commenta Gabriella Scarlatti, responsabile della Viral evolution and transmission Unit nella Division of Immunology, Transplantation and Infectious Diseases del IRCCS-Ospedale San Raffaele di Milano.

La diffusione del virus

“Se è vero che in quegli anni le persone si ammalavano di HIV senza saperlo, lo stesso si può dire di quei soggetti, molto più numerosi, che si sono ammalati negli anni Ottanta”. Quando la diffusione si è ampliata, si è arrivati nel giro di pochi anni a capire che si trattava di un nuovo virus, mai identificato prima. “Lo studio di Worobey non fa riferimento a popolazioni in cui il virus era molto diffuso: non stiamo parlando della stessa proporzione e prevalenza degli anni Ottanta, con i primi casi descritti nella comunità gay di San Francisco. In questi uomini – continua Scarlatti – si osservava l’insorgenza di tumori come il Kaposi – che adesso non si riscontra quasi più grazie all’efficacia delle terapie antiretrovirali – piuttosto che livelli di cellule T CD4+ bassi, senza saperne la causa, fino a che è stato identificato il virus, allora chiamato HTLV-III, responsabile di questa sindrome”.

La possibilità che le persone sieropositive hanno oggi di condurre una vita soddisfacente, con un’aspettativa di vita simile a quella delle persone non infette, è dovuta all’impiego dei farmaci antiretrovirali, capaci di contrastare la replicazione del virus. Alla luce di questa realtà, gli studi di filogenetica su campioni biologici così lontani dai nostri giorni “ci danno la possibilità di avere un’idea sempre più precisa di quando è avvenuto il salto dalla scimmia all’uomo” afferma Scarlatti. Gli autori dello studio calcolano che la fase di passaggio del virus sia avvenuta verso la fine dell’Ottocento o agli inizi Novecento e, quindi, “da allora ha continuato a diffondersi tra gli uomini – sottolinea la ricercatrice. Questo dà un’idea dell’epidemiologia dell’infezione, ci fornisce una completezza storica. Dall’altra ci dà dei mezzi per capire meglio la capacità del virus di mutare e con quali tempi”.

La mutazione del virus

Questo studio ci aiuta a capire quanto e come è mutato il virus in tutti questi anni. Infatti “andando a studiare HIV nei vari Paesi si è potuto classificarli in sottotipi, e capire che hanno una distribuzione geografica diversa. Sappiamo che ci sono tanti sottotipi quante sono le lettere dell’alfabeto. C’è anche un sottotipo “O”, quello più vicino al virus dello scimpanzè, una delle specie che ha trasmesso il virus all’uomo”. A questi sottotipi vanno aggiunte le sempre più frequenti forme ricombinanti del virus, che vanno sotto l’acronimo di CRF (circulating recombinant form). A oggi se ne contano più di 60 in tutto il mondo. In questi casi accade che due sottotipi di HIV infettano una cellula e parti del loro genoma si ricombinano. Quindi, all’evoluzione del virus ha contribuito il processo di mutazione e anche di ricombinazione.

“Negli anni Ottanta queste forme ricombinanti non erano così frequenti” sottolinea Scarlatti. “È anche vero che, oggi, le CRF si riescono a definire meglio grazie a tecniche di laboratorio che permettono di sequenziare pezzi più grandi di genoma, come hanno fatto i ricercatori di questo studio, che hanno ricostruito l’intero genoma del virus, che hanno chiamato CDR66”. Il valore aggiunto di questa ricerca è “la conferma di quanto era stato fatto negli studi precedenti su campioni relativi allo stesso periodo provenienti dalle stesse zone: Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo, Camerun. Tuttavia, negli studi precedenti avevano ricostruito dei frammenti di genoma, mentre qui l’hanno ricostruito per intero e questo ha potuto restituire molte informazioni e più precise”.

Bette Korber, direttrice della Gene Bank HIV di Los Alamos negli Stati Uniti, su The Atlantic ha definito questo studio “ammirabile, perché la ricostruzione della diffusione ed emergenza del virus HIV è fondamentale”. Lei, che assieme all’autore dello studio su CDR66, è stata pioniera nella ricostruzione del virus attraverso la raccolta di miliardi di informazioni genetiche, sottolinea come “HIV abbia lasciato nell’umanità una grande e dolorosa ferita che è parte dell’esperienza umana, ed è importante per noi capire questo”.

L’importanza dello studio

Il contributo che questo tipo di studio è in grado di dare alla ricerca di un vaccino contro HIV è quello di aver ricostruito la filogenesi del virus, andando a definire sempre più in dettaglio la sua origine. Queste conoscenze possono aiutare a sviluppare meglio i vaccini, per esempio quelli basati sul common ancestor. Secondo questo tipo di approccio, è possibile mettere a punto un vaccino in grado di dare una risposta immunologica forte partendo da questa base comune del virus. “Nel nostro laboratorio” racconta Gabriella Scarlatti “stiamo lavorando con un altro criterio: nell’ambito del consorzio internazionale EAVI2020, finanziato dall’Unione Europea e guidato dall’Imperial College di Londra, partendo dallo studio della mucosa cerchiamo di capire quali cellule del tessuto si infettano per prime, come reagiscono all’attacco di HIV e quali anticorpi sono attivi contro il virus. L’obiettivo è mettere a punto un vaccino in grado di agire al primo contatto del virus con la mucosa”. Un approccio che, se funzionasse, sarebbe vincente perché gli anticorpi si attiverebbero immediatamente contro un virus che, nel giro di poche ore entra nelle cellule della mucosa e, massimo in un paio di giorni, si diffonde in tutto il resto del corpo.

“Allo stato attuale degli studi possiamo dire che per avere un vaccino contro HIV non sarà sufficiente un solo approccio, ma che questa malattia dovrà essere affrontata soprattutto con la cura e con la prevenzione, ma più che altro con l’educazione alla prevenzione” afferma Scarlatti. Lo attesta il fatto che, in Italia, nell’ultimo anno, abbiamo avuto più di 3000 nuovi casi di sieropositività e, tra questi, “una percentuale rilevante di adolescenti e giovani che vanno dai 14 ai 25 anni. La prevenzione va fatta con l’uso del preservativo e con l’informazione, perché non si tratta di una malattia scomparsa. È, invece, un rischio assolutamente presente, sul quale grava tuttora purtroppo molta ignoranza”.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Federica Lavarini
Dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne, ho frequentato il master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste (SISSA). Sono giornalista pubblicista e scrivo, o ho scritto, su OggiScienza, Wired, La Lettura del Corriere della Sera, Rivista Micron, Il Bo Live, la Repubblica, Scienza in Rete.