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Giocare a nascondino con i ratti

Secondo uno studio pubblicato su Science i ratti giocano, e lo fanno per puro piacere

Giocare, alla nostra specie, piace moltissimo. Lo facciamo da piccoli, inventando storie e situazioni, con inseguimenti e corse; lo facciamo da adulti, con un gioco da tavolo, sugli smartphone, con una partita a pallone tra amici. C’è da dire una cosa: non siamo l’unica specie che ama giocare. Questo può essere particolarmente ovvio per chi convive con un animale domestico: quante volte abbiamo giocato con il nostro cane o il nostro gatto? Quante volte li abbiamo visti lanciarsi su una pallina, o giocare con una fontanella, oppure a rincorrersi (o rincorrerci)?

In natura, sono moltissimi gli animali in cui è stato osservato il comportamento di gioco. In letteratura, gli studi riguardano soprattutto mammiferi: giocano i delfini, diverse specie di primati, giocano gli elefanti e i maiali, solo per citarne alcuni. Ma qual è lo scopo del gioco? Quali sono i meccanismi neurobiologici che vi stanno alla base? Recentemente, uno studio pubblicato su Science ha indagato il gioco nei ratti, rivelando qualcosa che non può dirsi scontato: i ratti giocano per il puro piacere di farlo. E, a livello neurobiologico, le aree cerebrali coinvolte corrispondono a quelle individuate nella nostra specie.

Il gioco è una cosa seria

«Il gioco è per definizione un comportamento polifunzionale, che svolge molti ruoli diversi. È pervasivo in età giovanile, un momento in cui rappresenta una sorta di palestra per fare esperienza del mondo fisico e sociale che circonda il piccolo, e per molte specie si mantiene nell’età adulta», spiega a OggiScienza Elisabetta Palagi, etologa dell’Università di Pisa che, oltre a dedicare molte delle sue ricerche al comportamento di gioco nelle diverse specie animali, è tra i direttori di un workshop previsto per l’anno prossimo interamente dedicato al tema. «Correre, saltare, fare frenate improvvise, sono tutti comportamenti che aiutano un animale a conoscere l’ambiente fisico e come il corpo vi si rapporta. Quando poi il gioco prevede altri partecipanti, richiede lo sviluppo di competenze che consentano di capire in quale ambiente sociale ci si sta muovendo. Ad esempio, il gioco può essere più vigoroso quando avviene tra due individui che hanno ottime relazioni sociali, consentendo loro di saggiare le abilità proprie e altrui». Un meccanismo che può rivelarsi utile se, da grandi, i due individui si trovassero a competere ad esempio per una risorsa.

«Tutte queste “prove generali” possono così avvenire in un contesto, quello giocoso, relativamente sicuro. È difficile, ad esempio, che i giochi di lotta (il cosiddetto play fighting) arrivino a degenerare in un conflitto vero e proprio. E questo perché gli animali, quando giocano, mettono insieme tutti quei moduli comunicativi che ricordano che si tratta di un gioco. Anche questo è un aspetto che si rivela estremamente importante in età adulta e in un contesto “serio”, non di gioco, perché evitare il conflitto è spesso la scelta più vantaggiosa», continua Palagi. «La grande pervasività del gioco in età giovanile suggerisce, insieme all’elevata plasticità neuronale che la caratterizza, che questa sia un buon momento per acquisire quante più informazioni possibili sul mondo che ci circonda. In molte specie, comunque, il gioco si mantiene anche nell’età adulta, dove assume una funzione più legata alla costruzione e al mantenimento dei legami sociali; non a caso, si ritrova soprattutto nelle specie altamente cooperative. Una variabile che influenza positivamente il gioco negli adulti è la familiarità tra gli individui; inoltre, la necessità di condividere uno stato d’animo positivo e la dimostrazione di fiducia reciproca sono due elementi che contribuiscono allo sviluppo del gioco sociale. Il ruolo del gioco nella creazione e nel rinforzo dei legami tra individui vicini è così importante che in alcuni casi si può anche osservare il gioco tra individui che si conoscono molto bene ma che appartengono a specie diverse ».

«Lo studio del gioco inter-specifico è particolarmente interessante, perché permette d’indagare i criteri sui quali si basa la comunicazione e i meccanismi trasversali che possono essere impiegati in sessioni di gioco tra specie diverse», continua la professoressa. «È infatti necessario un comune denominatore dal punto di vista comunicativo che crei una sintonia: possono essere sguardi, posture, il modo in cui si esegue un movimento… ». L’esempio più semplice da fare è quello del gioco tra gli esseri umani e i cani, ma anche i ratti si sono dimostrati degli ottimi compagni di gioco.

Imparare le regole

Il nascondino è un gioco presente in molte culture. A ben guardarlo, non è poi semplicissimo: bisogna capire le regole (chi cerca e chi si nasconde) e trovare le strategie adatte (compiere una ricerca sistematica, individuare gli indizi visivi, capire come non farsi individuare…). Ecco una delle ragioni per cui è molto interessante scoprire che può essere insegnato anche a un ratto. Ancora più interessante, scoprire quanto gusto ci prenda quest’ultimo.

Ma perché mettersi a giocare proprio con i ratti? «Il ratto è uno dei modelli animali in assoluto più utilizzati in ricerca, perché si allevano facilmente ed è possibile controllarne molte variabili. Consentono inoltre di fare indagini neurofisiologiche: nel caso di questo bellissimo lavoro, ad esempio, i ricercatori hanno potuto monitorare l’attività neuronale in diverse aree del cervello dell’animale, così da capire quali fossero coinvolte nell’attività di gioco», spiega Palagi. «Non bisogna inoltre dimenticare che il ratto ha dimostrato di avere sofisticate abilità cognitive, e mantiene la tendenza a giocare anche in età adulta, per cui è una specie in cui questo comportamento ha un ruolo importante nel corso di tutta la vita». Quelli addestrati dai ricercatori, in particolare, sono ratti che non hanno ancora raggiunto la pubertà, e si trovano quindi in un momento in cui la motivazione al gioco è massima.

Gli autori dello studio, un team di scienziati tedeschi, ha dimostrato che i ratti imparano a giocare a nascondino, rapidamente e riuscendo a coprire entrambi i ruoli, quello di seeker (il “cercatore”) e quello di hider (l’individuo che sta nascosto). Molti gli indizi che suggeriscono come i ratti fossero perfettamente consapevoli del ruolo che rivestivano di volta in volta. Ad esempio, i ratti avevano a disposizione, per nascondersi, pannelli sia opachi che trasparenti: nel ruolo di hider, sceglievano con frequenza significativamente maggiore quelli opachi. «È un aspetto particolarmente interessante, perché evidenzia uno dei primi criteri utilizzati per indagare la teoria della mente, ossia la capacità di attribuire stati mentali ad altri individui, che pure non era oggetto di studio in questo lavoro». Non solo. I ratti sono animali che impiegano molto le vocalizzazioni ultrasoniche per comunicare tra loro; nel loro studio, i ricercatori notano che le vocalizzazioni vengono emesse quando l’animale gioca nel ruolo di seeker, ma non quando si nasconde.

Per il gusto del gioco

Una delle domande principali che questo lavoro solleva è: ma perché i ratti dovrebbero giocare a nascondino con gli scienziati? Una delle possibilità indagate dai ricercatori è l’ipotesi del shaped-to-play: in pratica, i ratti giocherebbero per la ricompensa sociale che il gioco porta con sé. Per testare quest’ipotesi, il rinforzo positivo impiegato nello studio non è stato alimentare, ma di tipo ludico, con solletico e grattatine al ratto. È noto, infatti, che questa è un’attività molto apprezzata dai ratti: quando solleticati, emettono vocalizzazione associate alle interazioni positive (“ridono”) e, se si smette di solleticarli, cercheranno di nuovo il contatto.

Eppure, i ricercatori hanno osservato che quando il ratto gioca come hider e viene trovato, non aspetta il solletico: corre a cercare di nascondersi di nuovo, ritardando intenzionalmente la ricompensa. Questo si unisce ad altre considerazioni, come il fatto che, se il ratto giocasse per avere la ricompensa, allora sceglierebbe più facilmente i nascondigli facili da trovare (i pannelli trasparenti), o emetterebbe più vocalizzazioni quando si nasconde. Aggiungendo i segnali di piacere che il ratto manifesta durante il gioco (ad esempio, i Freudensprung, o salti di gioia), l’osservazione dei ratti che cercano di continuare a nascondersi supporterebbe un’altra ipotesi, ossia che il ratto gioca per il piacere di farlo (play-to-play hypothesis).

Andando a indagare i meccanismi neurobiologici che sottendono all’attività del gioco, i ricercatori hanno individuato una maggior attività neuronale nella corteccia prefrontale mediale durante il nascondino. Nell’uomo, la corteccia prefrontale sembra essere coinvolta nel comportamento sociale e nel gioco: ci sarebbe quindi una certa sovrapposizione nelle aree del cervello coinvolte in queste attività anche tra specie diverse. Inoltre, gli elettrodi impiantati nei ratti registravano attività dei singoli neuroni diversa a seconda delle fasi del gioco.

«È un lavoro bellissimo dal punto di vista metodologico, perché consente di studiare il gioco, che per definizione è libero, anche in laboratorio, dove i metodi si basano normalmente sul condizionamento degli animali», conclude Palagi. «Interessantissimo anche dal punto di vista etologico e neurobiologico, perché fornisce una nuova prospettiva sull’importanza del gioco e sui meccanismi cerebrali coinvolti».


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.