SPORT

Maratona in meno di due ore

La scienza dietro all’impresa di Eliud Kipchoge

Quarantaduemila e centonovanta cinque metri in un’ora, cinquantanove minuti e quaranta secondi. O anche capolavoro leggendario, pietra miliare, svolta epocale. Comunque la si voglia leggere, l’impresa di Eliud Kipchoge, keniano di 34 anni, è già entrata nei libri di storia, dello sport e anche di scienza. Sabato 12 ottobre tra i viali del parco Prater di Vienna, Kipchoge ha corso la distanza della Maratona in meno di 2 ore, alla velocità costante di 21km all’ora, 1000 metri in 2.50 minuti. Mai nessuno prima era riuscito a scendere sotto il fatidico “muro”: il record appartiene proprio a Kipchoge che a Berlino, nel 2018, tagliò il nastro in 2h01’41”.

Appartiene, al presente. Perché quello di Vienna non può essere omologato come tempo ufficiale. Eliud Kipchoge ha corso su un terreno studiato nei dettagli e in un giorno scelto in base alle condizioni meteorologiche più favorevoli. La pista è stata allestita solo per lui e per tutta la corsa ha avuto a disposizione 35 “lepri” (e 6 riserve), runner che a gruppi di sette gli si sono alternati davanti in una formazione a cono per diminuirgli l’attrito dell’aria. In più, un’auto con cruise control inserito ha tenuto i 21km/h costanti proiettando sul terreno un laser verde per tenere il passo.

Lontani dalle polemiche dei puristi della Maratona, se quello di Vienna non è un record è sicuramente un esperimento scientifico che ha dato l’esito previsto: oggi è chiaro che l’uomo, potenzialmente, può davvero correre 42 chilometri e 195 metri in meno di due ore. Ma qual è la scienza dietro all’impresa disumana di Kipchoge? Come si comporta il nostro corpo quando è sottoposto a uno stress simile? Dove troviamo la benzina necessaria per correre un chilometro in neanche tre minuti ripetendolo per 42 volte? Seguendo gli step di una gara, gli elementi fondamentali da tenere in considerazione sono cinque.

10 km – il cuore

In una maratona ogni atleta deve abituare il proprio corpo a modificare certe regole fisiologiche per potersi adattare allo sforzo fisico. All’inizio di una maratona al tessuto muscolare, al cuore e al cervello deve arrivare un maggior flusso di sangue rispetto alle condizioni basali normali. Così aumenta il battito cardiaco e a livello dei muscoli si ha una vasodilatazione che permette l’arrivo di più sangue e ossigeno. Perciò mentre gli ritorna sempre più sangue venoso, il cuore impara ad adattarsi e a pompare volumi di sangue superiori stabilizzando così la frequenza cardiaca.

Normalmente, un individuo di circa 70 kg e alto 1,70, a riposo ha il cuore che pompa circa 70 volte al minuto e a ogni battito vengono pompati circa 70ml di sangue. Tanto più intenso è lo sforzo, invece, e tanto più il soggetto può arrivare ad una frequenza cardiaca di 3 volte superiore, quindi fino a 180/200 battiti, con un volume di sangue che può raggiungere anche i 140 ml.
Nelle prime fasi dello sforzo, dunque, la sensazione di affanno è normale ma appena il cuore riesce ad adeguare il volume di sangue pompato ad ogni battito, la ventilazione si stabilizza e quindi, non intensificando lo sforzo, si riesce a mantenere un ritmo senza affanno. Quando questo meccanismo entra a regime, si dice che si “spezza il fiato”.

20 km – I polmoni

Perché i muscoli lavorino appieno servono ossigeno e sostanze nutritive, ovvero il glucosio e i grassi. L’ossigeno arriva nei polmoni dal sistema respiratorio, tramite il sistema cardiocircolatorio invece arriva ai muscoli. Il glucosio e i lipidi arrivano nell’organismo dal sistema digerente e alle cellule attraverso il sistema cardiocircolatorio. Perché si compia lavoro serve energia, perché si abbia energia servono glucosio, lipidi e ossigeno: dalla loro combustione con l’ossigeno si ottiene l’energia per il lavoro meccanico e muscolare. In altre parole, il sistema respiratorio è decisivo.

In un atleta di peso e statura medi, il volume di aria che entra ed esce dai polmoni a ogni atto respiratorio è di circa 500ml, mentre gli atti respiratori, a riposo, sono circa 12 al minuto per un totale di aria ventilata pari a 6 litri al minuto. Sotto sforzo invece, può arrivare anche ad un massimo di 180 litri al minuto di aria ventilata.

Eliud Kipchoge ha un peso di 57kg e un’altezza di 1 metro e 67 centimetri: per riuscire nell’impresa ha dovuto lavorare e allenarsi per alzare notevolmente quello che viene definito il massimo consumo di ossigeno. Ovvero la massima quantità di ossigeno che l’organismo può fornire ai muscoli in un minuto. È un elemento importantissimo: pompare più sangue significa portare più ossigeno dai polmoni in tutte le parti del corpo e quindi produrre più energia. Il massimo consumo di ossigeno è chiamato Vo2Max: è più alto e più veloce potremmo correre la Maratona.

I valori medi del Vo2Max in un uomo di età compresa tra i 30 e i 39 anni in buona forma si aggirano indicativamente tra 41.0 e i 44.9 ml/kg/min. Con un test predittivo del Vo2Max, inserendo la distanza e il tempo di Vienna, Kipchoge dovrebbe avere un valore indicativo di Vo2Max intorno a 85.8. Quindi quasi il doppio di un atleta “normale”.

30 km – I muscoli

Si parlava di benzina. Il combustile energetico principale necessario ai muscoli è il glucosio. Il quale, tuttavia, non è infinito. Nella norma, il tasso medio nel sangue oscilla tra i 65 e 110 mg/dl. Durante una maratona, è fondamentale conservarne il più possibile. Le sue scorte possono arrivare sia dai carboidrati sia da depositi stoccati nei muscoli stessi dove il glucosio è presente in forma di glicogeno. Anche il glicogeno, tuttavia, tende ad esaurirsi poiché in quantità determinata in base a fattori genetici, all’alimentazione e agli allenamenti. In media si stima che il nostro corpo è in grado di immagazzinare 500 grammi di glicogeno, circa 2000 calorie di glucosio.

Ci sono due parole d’ordine per ogni maratoneta e soprattutto per uno come Eliud Kipchoge deciso a sfondare il muro delle 2 ore: la gestione praticamente perfetta del ritmo e dell’intensità dello sforzo e la reintegrazione. Aumentando e variando il ritmo, infatti, il corpo si adegua andando a prendersi il glucosio, esaurendolo in fretta. Il maratoneta abile sa quindi gestire il ritmo gara in modo da riuscire a dare la massima intensità con il minor consumo energetico, tenendo così un ritmo tale per cui a venir consumati sono soprattutto grassi già presenti nell’organismo.

 Per mantenere il glicogeno a livelli costanti nel sangue, comunque, è fondamentale reintegrare attraverso l’assunzione di maltodestrine e fruttosio. È praticamente impossibile, infatti, portare a termine una gara facendo riferimento alle sole riserve di glicogeno già presenti nel corpo. Lo stesso Kipchoge, a Vienna, ha più volte fatto rifornimento, ovviamente senza mai fermarsi.

Il rischio di una gestione sbagliata è quella di sbattere contro “il muro”. Ovvero quella soglia idealmente posta intorno al 35esimo chilometro e temuta da tutti i maratoneti oltre cui si ha l’ipoglicemia: una sensazione di completo esaurimento di ogni goccia di carburante. Se i depositi di grassi nell’organismo sono “illimitati, quelli di glicogeno sono appunto limitati. E se quindi l’intensità è troppo alta e si usa troppo glucosio, questo si esaurisce in fretta, la glicemia scende e la gara è a rischio.

40 km – L’acido lattico

Via via che la velocità sale e la gara si intensifica, la richiesta energetica aumenta considerevolmente e l’ossigeno della respirazione non basta. Il nostro organismo compensa la richiesta energetica ma, come conseguenza, produce acido lattico. Entro certi valori l’organismo riesce a “smaltire” questa sostanza e a riconvertirlo in glucosio per nuova energia e per questo il “mito” dell’acido lattico come nemico dell’atleta non è un concetto assoluto.

Certo, l’acido lattico è comunque una sostanza disturbante il corpo. Tanto più è intenso lo sforzo e tanto più acido lattico verrà prodotto ma la sua sovrapproduzione “rompe” l’equilibrio del meccanismo di smaltimento dando origine all’esaurimento muscolare. I muscoli cioè non riescono più a contrarsi, salgono dolore e fatica e si deve diminuire il ritmo.

Il punto in cui vi è equilibrio tra la velocità della corsa, i battiti e la produzione-smaltimento dell’acido lattico è definita “soglia del lattato”, conosciuta anche come soglia anaerobica. Su questo si gioca molto l’attenzione della preparazione di un atleta come Kipchoge. Allenare la soglia anaerobica significa poter correre a velocità più elevate in condizioni di equilibrio tra produzione e smaltimento di lattato, tenendo lontane fatica e dolore.

195 metri – La testa

Come negli ultimi pochi ma difficilissimi metri di una Maratona, così anche il nostro ultimo punto è quello forse più delicato e difficile da spiegare: la mente. Troppo soggettivo e ricco di sfumature diverse per ogni atleta. A livello generale, non deve mancare un’altissima concentrazione posta sia sulla gara quanto sugli allenamenti, che in media durano dai 4 ai 6 mesi mentre un equilibrio psicologico, fatto di routine e piccoli gesti, può tranquillizzare e mettere a proprio agio per affrontare gli inevitabili momenti di stress.

Eliud Kipchoge in carriera ha vinto undici maratone su dodici partecipazioni, è il detentore del record mondiale e ha anche battuto il muro delle due ore. In allenamento corre una media di 220km a settimana e in ogni sessione mette passione e autodisciplina. Scrive tutto su quaderni, tenendo nota di ogni sensazione per ricordarla, studiarla, riviverla e migliorarla. Legge Aristotele, Confucio e Paolo Coelho, si alza sempre alle 5, lava maglia e calze a mano e nel pomeriggio beve una tazza di te con una fetta di pane. È forse il maratoneta più forte di tutti i tempi.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Kevin Ben Ali Zinati
Studente del Master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" della SISSA e giornalista freelance, ha una laurea in Lettere Moderne. Scrive principalmente di sport e scienza. Ama la musica e i film, gioca a tennis e corre maratone.