GRAVIDANZA E DINTORNI

Gravidanza nel terzo millennio, ecco come è cambiata

9 piccole o grandi rivoluzioni recenti nel modo di affrontare gravidanza, parto ed eventuali malattie collegate

Dalla diagnosi prenatale alle grandi innovazioni in chirurgia, dalle nuove raccomandazioni sulle vaccinazioni alla questione sociale e culturale della violenza ostetrica e altro ancora: i primi vent’anni del nuovo millennio hanno cambiato molti aspetti della gravidanza e del parto. Ecco alcuni tra gli avanzamenti più significativi di questo periodo.

Dal test combinato alla rivoluzione NIPT: il declino dell’amniocentesi

Fino a pochi anni fa alle donne in gravidanza con più di 35 anni veniva proposta di routine l’amniocentesi: una tecnica invasiva di diagnosi prenatale che si esegue intorno alle 16 settimane di gravidanza e permette di individuare eventuali anomalie nel numero di cromosomi del feto (aneuplodie) come la sindrome di Down, il cui rischio aumenta in modo notevole con l’età materna dopo i 35 anni. Si tratta di un esame molto accurato ma con un minimo rischio di perdita fetale, storicamente indicato intorno all’1% anche se studi più recenti lo descrivono come molto più basso (intorno al 3 per mille).

Ora, però, tutto è cambiato con l’introduzione di test di screening che offrono se non la certezza diagnostica, come nel caso dell’amniocentesi, comunque una stima molto affidabile del rischio di anomalie cromosomiche, senza quello di aborti e con il vantaggio di poter essere eseguiti prima. I primi test di questo tipo sono stati quelli basati sulla combinazione di informazioni ottenute con ecografia fetale (misurazione della translucenza nucale) e tramite dosaggio di alcuni ormoni nel sangue materno, in particolare il cosiddetto bitest (o duotest, o test combinato, da eseguire intorno alle 12 settimane), che nel 2017 è stato inserito nei nuovi LEA, i livelli essenziali di assistenza. Significa che dovrebbe essere offerto gratuitamente su tutto il territorio nazionale, anche se non è ancora così ovunque.

Ma la vera rivoluzione è arrivata con l’introduzione del test del DNA fetale o NIPT (acronimo dell’espressione inglese che sta per test di screening prenatale non invasivo), che si basa sull’analisi di frammenti di DNA fetale in circolazione nel sangue materno. Basta dunque un prelievo del sangue della donna, già intorno alle 10 settimane di gravidanza, per evidenziare in modo davvero molto accurato il rischio di aneuploidie del feto (in particolare trisomia 21, la sindrome di Down, trisomia 13, trisomia 18 e anomalie dei cromosomi sessuali). Il limite, per il momento, è rappresentato dal fatto che rimane un esame da effettuare privatamente, con costi che si aggirano intorno ai 400-700 euro, salvo poche eccezioni. Per esempio, da marzo 2019 in Toscana alle donne che con il test combinato hanno ottenuto un esito di rischio di aneuploidia compreso tra 1/300 e 1/1000 , il test del DNA fetale viene offerto in copagamento, a una tariffa di 200 euro anziché 400 (o con esenzione totale se appartengono a particolari categorie, come indigenza, disoccupazione o altre). Ed è appena stato annunciato che a partire dal 2020 l’Emilia Romagna introdurrà il NIPT in forma gratuita per tutte le donne in gravidanza residenti in regione, indipendentemente dall’età o dalla presenza di altri fattori di rischio. Si parte a gennaio con una fase pilota di nove mesi che riguarderà le donne residenti a Bologna: il test sarà offerto a tutte coloro che prenotano un test combinato in una struttura pubblica. Al termine del periodo pilota, la proposta sarà estesa a tutte le residenti della regione.

Promozione delle vaccinazioni in gravidanza

Vaccinarsi in gravidanza? Non solo in alcuni casi è possibile, ma anche caldamente consigliato per prevenire malattie potenzialmente pericolose per la mamma, il feto o il nascituro. È il caso della vaccinazione antinfluenzale e di quella contro la pertosse (nella forma trivalente contro difterite-tetano-pertosse, DTP), ormai da diversi anni raccomandate da vari paesi e più di recente anche in Italia. Per noi le ultime raccomandazioni sono quelle emanate dal Ministero della salute lo scorso 12 novembre.

La vaccinazione contro l’influenza – malattia che tendiamo a considerare “banale” ma che può aumentare il rischio di ricovero in ospedale della mamma, di prematurità, basso peso alla nascita e stress fetale per il bambino  – è raccomandata e offerta gratuitamente in qualsiasi momento della gravidanza (anche nel primo trimestre). Quella contro difterite-tetano-pertosse (DTP), da effettuare dalla settimana 27 alla 36 di gravidanza (idealmente alla 28esima), è importantissima per proteggere dalla pertosse il neonato, che non può essere vaccinato per i primi due-tre mesi di vita e per il quale questa malattia può essere molto grave e persino mortale. I vaccini DTP e antinfluenzale possono essere fatti insieme e vanno rinnovati a ogni gravidanza. I dati disponibili dicono che sono entrambi molto sicuri (l’ultima conferma in una revisione sistematica pubblicata sul Journal of Travel Medicine).

Chirurgia fetale

È di sicuro un altro grande avanzamento degli ultimi anni: la chirurgia in utero è sempre meno invasiva e, pur rimanendo una pratica di nicchia, riservata a situazioni rare, sempre più praticata. Qualche esempio? Le trasfusioni direttamente in utero in caso di anemia fetale; l’utilizzo del laser per il trattamento della sindrome da trasfusione feto-fetale che può verificarsi tra gemelli monocoriali (con una sola placenta); la riparazione della spina bifida; il trattamento dell’ernia diaframmatica con introduzione di una sorta di palloncino gonfiabile attraverso la bocca del feto, in modo che possa ostruire temporaneamente la trachea per favorire lo sviluppo degli organi compromessi dalla malformazione (il palloncino viene poi rimosso qualche settimana prima del parto). E ancora: il posizionamento di shunt (piccoli tubicini di plastica) per trattare versamenti pleurici oppure ostruzioni del tratto urinario; valvuloplastica aortica o polmonare, in caso di restringimento dell’aorta o dell’arteria polmonare. Infine, la procedura EXIT (ex utero intrapartum therapy), che consiste nell’intervento sul feto al di fuori dell’utero ma prima del taglio del cordone ombelicale, per la gestione di condizioni che possono ostruire le vie aeree superiori, impedendo la respirazione alla nascita (tumori del collo o del polmone, anomalie della laringe o della trachea ecc.).

Più consapevolezza dell’importanza dei primi 1000 giorni

Una certa idea che quello che succede in gravidanza abbia conseguenze sulla salute del bambino c’è sempre stata, basti pensare alle (false) credenze sulle voglie delle donne incinte. Oggi sappiamo che davvero la vita passata per nove mesi in utero, come quella dei primi due anni – i primi 1000 giorni, appunto – è molto importante per definire la salute del bambino, ma anche quella dell’adulto che diventerà.

Per esempio sappiamo che l’assunzione regolare di acido folico (400 microgrammi al giorno) da quando si comincia a pensare alla gravidanza fino alla fine del terzo mese è importantissima per la prevenzione di alcune malformazioni congenite, in primis la spina bifida. Eppure, secondo i primi risultati del Sistema di sorveglianza sui bambini 0-2 anni dell’Istituto Superiore di Sanità, solo una donna su cinque ha preso acido folico con una modalità davvero utile per questa prevenzione.

Più in generale, negli ultimi 20-30 anni abbiamo imparato quanto sia importante lo stile di vita della mamma – ma anche quello del papà – in termini di alimentazione, abitudine al fumo, consumo di alcol e droghe, esposizione a inquinanti, sulla salute a lungo termine dei bambini. Tramite meccanismi di tipo epigenetico, infatti, le condizioni di vita in utero possono influenzare il rischio di malattie come obesità, diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari, allergie, autismo, schizofrenia, malattie endocrine e altro ancora. Tra gli ultimi dati in proposito ci sono quelli, pubblicati poche settimane fa sul British Medical Journal, che mettono in relazione la presenza di diabete materno prima o durante la gravidanza e un aumento, nei figli, dei tassi di malattia cardiovascolare a esordio precoce, dall’infanzia fino a 40 anni.

Movimento sulla violenza ostetrica

In Italia la questione è esplosa nella primavera del 2016, con la campagna social #Bastatacere, che ha raccolto le testimonianze di centinaia e centinaia di donne che hanno raccontato di essere state vittime di qualche forma di violenza ostetrica, subita cioè durante l’assistenza al travaglio e al parto: da atti considerati inappropriati o effettuati senza adeguato consenso (episiotomie, manovre di Kristeller…) a interventi dolorosi eseguiti senza anestesia a comportamenti scortesi, arroganti o addirittura sessisti.

Si è trattato di un grande movimento dal basso, che ha suscitato molta discussione – e inevitabili polemiche – e che ha portato alla luce la necessità di maggiore attenzione nei confronti di aspetti come umanizzazione e personalizzazione delle cure.

Il movimento però non è stato solo italiano: di violenza ostetrica si parla ormai in tutto il mondo ed è dello scorso ottobre la notizia che il Consiglio d’Europa ha approvato una risoluzione su questa “forma di violenza rimasta nascosta per molto tempo e tutt’ora spesso ignorata”. In particolare, l’Assemblea del Consiglio sottolinea la necessità di un’assistenza alla nascita “basata sul pieno rispetto della dignità e dei diritti umani” e di investimenti adeguati perché questa assistenza possa verificarsi, considerato che spesso gli operatori sanitari si trovano a lavorare in condizioni difficili e con risorse limitate, che non aiutano la “cura”. La risoluzione, inoltre, invita gli stati membri a raccogliere e rendere pubblici dati sulla violenza ostetrica, approfondire il tema – e in generale gli aspetti relazionali della cura – nella formazione del personale sanitario, condurre campagne di informazione sui diritti dei pazienti, proporre meccanismi di segnalazione e denuncia specifici per le vittime di violenza ostetrica, prevedere sanzioni (dove non previste) contro gli operatori sanitari quando venga dimostrata una violenza di questo tipo.

Il ritorno del quarto trimestre

In molte culture tradizionali il periodo del puerpuerio è considerato quasi sacro: un periodo in cui la donna rimane tranquilla a riposare e conoscere il proprio bambino, circondata dal sostegno della famiglia e delle altre donne della comunità. Inutile dire che molta di questa sacralità oggi è sparita e che non solo il sostegno collettivo, ma addirittura l’attenzione degli operatori sanitari verso le neomamme è spesso piuttosto fragile. Per questo è stato considerato di grande rilievo il richiamo lanciato qualche mese fa dall’Associazione dei ginecologi ostetrici americani (ACOG) a tornare a occuparsi di puerpuerio, per l’occasione rinominato quarto trimestre, a segnare un’inevitabile continuità con la gravidanza, ma soprattutto la necessità di una maggiore attenzione nell’assistenza, pari a quella dedicata alla donna nei tre trimestri dell’attesa. Un richiamo fatto proprio per esempio dall’Ospedale dei Bambini Buzzi di Milano, che poche settimane fa ha inaugurato un ambulatorio tutto dedicato al quarto trimestre.

Trapianto di utero

Ne avevamo parlato nel 2014  e in questi anni i casi nel mondo sono aumentati: secondo quanto riferito sulla rivista Lancet, a dicembre 2018 risultavano 12 bambini venuti al mondo grazie a trapianto di utero da vivente ma anche da cadavere (più un paio in procinto di nascere). Si tratta di una tecnica sicuramente rivoluzionaria per donne che non hanno utero, che al momento per diventare madri possono ricorrere solo all’adozione o alla gestazione per altri (non in Italia, dove è vietata), ma è molto probabilmente destinata a rimanere di nicchia, anche perché richiede tre interventi chirurgici pesanti in sequenza (trapianto, cesareo per far nascere il bambino, rimozione dell’organo). Tuttavia, c’è chi sostiene che in futuro potrebbe essere presa in considerazione anche per situazioni meno estreme e attualmente considerate controverse, come la presenza di fibromi non operabili.

La piramide invertita dell’assistenza prenatale

Negli ultimi anni si è parlato molto dello sviluppo di test in grado di predire il rischio di preeclampsia, una grave malattia della gravidanza che può comportare restrizioni di crescita del feto, morte in utero o conseguenze importanti (fino alla morte) anche per la mamma. In realtà nonostante la disponibilità di alcuni kit commerciali, non possiamo parlare di screening davvero valido e definitivo (come del resto non può essere considerata sempre valida e definitiva la terapia con aspirinetta, nonostante possa rivelarsi efficace in alcune particolari condizioni). Certo è che stiamo assistendo a una sorta di rivoluzione culturale per cui, in questo come in altri casi, si cerca sempre meno di “lavorare” sugli ultimi mesi o le ultime settimane di gravidanza, concentrandosi invece sempre di più sulle prime, nella convinzione che molto dell’andamento futuro della gravidanza si giochi proprio lì. Dunque un approccio a “piramide invertita”, come l’ha definito il ginecologo Kypros Nicolaides del King’s College Hospital di Londra, uno dei massimi esperti mondiali di medicina fetale.

Nuove reti di sorveglianza ostetrica

Vorremmo tutti che nella vita andasse sempre tutto bene. Purtroppo non è così e ancora oggi può succedere che un bimbo o una mamma muoiano durante la gravidanza o il parto. In alcuni casi si tratta di morti evitabili, in altri di situazioni per le quali non si poteva davvero fare nulla. Contare e analizzare questi casi con accuratezza è fondamentale per un paese, perché rappresenta il primo passo necessario per mettere in atto miglioramenti dell’assistenza o interventi di prevenzione che possano, in futuro, salvare vite umane. Ed è esattamente quello che ha fatto in Italia l’Istituto Superiore di Sanità istituendo, a partire dal 2008, un Sistema di sorveglianza ostetrico sulla mortalità materna (ITOSS).

I primi dati definitivi del progetto, relativi a 10 regioni, sono stati pubblicato lo scorso marzo e documentano un tasso di mortalità materna pari a 9 casi ogni 100 mila nati vivi (circa 40 casi all’anno con la natalità attuale), un dato paragonabile a quello di altri paesi con un sistema avanzato di sorveglianza delle morti materne come il Regno Unito e la Francia. Si tratta di circa il 40% dei casi in più di quelli che venivano conteggiati con l’analisi dei soli certificati di morte, a conferma dell’importanza di una sorveglianza specifica. Tre le principali cause di morte materna individuate: emorragia ostetrica, sepsi e disturbi ipertensivi della gravidanza. Nel periodo 2013-2017, cinque morti sono state attribuite all’influenza: nessuna delle donne colpite era stata vaccinata contro questa malattia in gravidanza. Nel complesso, è stato giudicato evitabile con una migliore assistenza il 45,5% dei decessi.

Nel 2017 nell’ambito di ITOSS è stata attivata una nuova rete di sorveglianza specifica per la mortalità perinatale, che riguarda cioè i feti dopo le 28 settimane di gravidanza e i neonati entro una settimana dalla nascita (progetto SPITOSS).

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance