ANIMALI

I richiami d’allarme come chiave per la formazione dei gruppi nella savana

Trovarsi delle buone compagnie è sempre importante... soprattutto se si è erbivori della savana, perennemente minacciati dai predatori a caccia. Ma qual è una buona compagnia per un impala o una zebra?

Nella savana è possibile osservare spesso erbivori di specie diverse che condividono lo spazio, e per lungo tempo gli scienziati hanno ritenuto che l’aggregarsi tra diversi animali fosse il risultato di interazioni dirette tra la competizione interspecifica per le risorse e la presenza di predatori. Negli ultimi anni, tuttavia, è diventato sempre più evidente che anche la possibilità di acquisire e scambiare informazioni è un elemento importante nella creazione di gruppi misti di specie diverse. E le informazioni più interessanti per un erbivoro della savana, suggerisce uno studio pubblicato sulla rivista Ecology Letters, sono quelle sui predatori: è in base alla possibilità di essere avvertiti della loro presenza che gli animali si riuniscono insieme.

In buona compagnia

Gli autori dello studio, tre ricercatori afferenti alle università di Liverpool e New York, hanno studiato le specifiche caratteristiche che determinano l’affinità tra le diverse specie di erbivori della savana. Ne hanno tenuti in considerazione 12, tra i più comuni delle pianure del Masai Mala, in Kenya, dove hanno condotto le loro ricerche.

Innanzitutto, gli scienziati hanno sviluppato un modello teorico in grado di predire la probabilità di sopravvivenza di un determinato individuo (immaginario) quando si univa a un gruppo di conspecifici o di specie diverse, con differenti caratteristiche. Tra queste, sono state prese in considerazione ad esempio il grado di vigilanza, la presenza di richiami di allarme (e con che probabilità e rilevanza si presentano), la dimensione del gruppo e degli individui, nonché, nel confronto tra coppie di specie, la sovrapposizione di habitat e di dieta.

Quindi, il modello teorico è stato testato sul campo, principalmente tra il settembre 2015 e l’ottobre 2016. I risultati predetti dal modello e verificati sul campo mostrano che l’elemento chiave a determinare la formazione di gruppi interspecifici è la possibilità di avvalersi dei richiami di allarme di una determinata specie, che informa le altre sulla minaccia di un predatore. «Gli ecologisti si concentrano spesso solo sulla presenza di cibo e predatori per capire come gli animali si distribuiscono in natura», spiega in un comunicato Jakob Bro-Korgensen, dell’Università di Liverpool e senior author dello studio. «Ma il nostro studio mostra che gli animali scelgono di unirsi a specie che possono fornire informazioni utili, in questo caso sulla presenza di un predatore».

L’importanza del comportamento (anche) per la conservazione

Oltre alla possibilità di allertare gli altri membri del gruppo sulla minaccia posta un predatore, i ricercatori hanno individuato altre sue caratteristiche che contribuiscono a formare i gruppi eterospecifici. Si tratta della vulnerabilità nei confronti dell’attacco di un predatore e della vigilanza, definita come la porzione del tempo che la specie spende vigile, all’erta. Gli autori dello studio hanno osservato che le specie meno vigili e/o più vulnerabili si associano più facilmente a gruppi misti, probabilmente per compensare la loro scarsa capacità di accorgersi dei predatori o per cercare maggior sicurezza all’interno del gruppo.

La condivisione delle informazioni tra specie diverse è già stata osservata in diversi altri taxa, sia per quanto riguarda la presenza di predatori sia per quanto riguarda la localizzazione del cibo. Il nuovo lavoro aggiunge l’importanza della comunicazione per l’organizzazione spaziale delle comunità che riuniscono specie diverse.

«Il nostro studio indica la presenza di un mondo sociale complesso e intrigante, dove le relazioni sociali tra le diverse specie variano in un range che va dal mutuo beneficio al parassitismo», spiega Bro-Korgensen. «L’impatto della comunicazione tra specie diverse sull’attrazione sociale e la sopravvivenza evidenzia l’importanza di considerare i collegamenti comportamentali per capire come funziona il mondo naturale».

E, scrivono gli autori, questo è a sua volta fondamentale per le strategie di conservazione, ed evidenzia i limiti di un approccio incentrato sulla singola specie. «Questi risultati possono aiutare chi si occupa di conservazione a predire meglio il rischio di estinzione di specie che dipendono dalle informazioni portate da altri», conclude Bro-Korgensen.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.