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Quel che bisogna sapere adesso che il coronavirus è in Italia

Se le misure di contenimento non basteranno a fermare il contagio, occorre prepararsi a un cambio di strategia, senza allarmismi e con la collaborazione di tutti

Il virus della Covid-19 è stato identificato in diverse regioni italiane, sebbene al momento i focolai restino solo due: il primo si trova nel lodigiano, in Lombardia, il secondo è nel padovano, in Veneto. Nel complesso, i casi confermati sono più di 200, cinque le vittime. E con la diffusione capillare dei test – ne sono già stati effettuati più di 4.000 – il bilancio è destinato a salire ancora. Questi numeri fanno dell’Italia il più importante focolaio epidemico fuori dalla Cina dopo la Corea del Sud, dove si sono registrati oltre 800 casi e 7 vittime. La preoccupazione è palpabile e in buona misura comprensibile, tuttavia siamo di fronte a uno scenario ampiamente previsto e che può essere gestito al meglio con la collaborazione di tutti. Ecco quel che c’è da sapere ora che il coronavirus si è diffuso anche in Italia.

Da dove è arrivato il virus?

Non è ancora chiaro come il nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) sia arrivato nel nostro Paese. Sebbene sia prematuro saltare a conclusioni, il rapido aumento dei casi lascia supporre che il virus circolasse in Italia già diversi giorni e che l’estensione a tappeto dei test abbia messo a nudo la sua silenziosa diffusione. Questi spiegherebbe anche perché non sia stato possibile risalire alla sorgente del contagio, il cosiddetto paziente zero, che nel frattempo potrebbe essere già guarito dopo aver avuto sintomi lievi, scambiati magari per una banale influenza, come avviene alla maggior parte delle persone che contraggono il virus. È solo un’ipotesi ma renderebbe più difficile ricostruire la catena di trasmissione e quindi circoscrivere i focolai. È inoltre possibile che essersi concentrati sui soliti sospetti – i cinesi e le persone provenienti dalla Cina – possa avere giocato un brutto scherzo, impedendo di riconoscere i sintomi della Covid-19 nelle prime persone contagiate in Italia senza avere mai messo piede in Cina.

Come del resto spiega l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), di fronte a un virus che si trasmette con facilità da persona a persona, le misure di contenimento possono rallentare la diffusione, ma non sempre riescono a impedirla. Nel nostro mondo affollato e iperconnesso, il rischio di contagio, come avrebbe detto il sociologo Ulrich Beck, non conosce confini tra nazioni o classi sociali, viaggiando più in fretta sugli aerei di linea che sui barconi dei migranti. E mentre in Cina la situazione resta critica – si contano oltre 77 mila casi confermati e circa 2.500 vittime – l’OMS teme che il rapido aumento dei contagi che si osserva nel resto del mondo possa essere il preludio di una pandemia. Il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha più volte espresso forte preoccupazione soprattutto le nazioni con un sistema sanitario più vulnerabile, a partire da molti Paesi del continente africano.

È giusto  preoccuparsi?

Nei giorni scorsi, il più ampio studio sulle persone colpite dal coronavirus, realizzato dal Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie della Cina e pubblicato sul Chinese Journal of Epidemiology, ha chiarito che nell’80% dei casi la Covid-19 dà sintomi lievi, non molto diversi da un comune raffreddore o dall’influenza. Meno del 15% delle persone colpite sviluppa sindromi importanti e solo il 5% sviluppa una patologia grave che richiede l’ospedalizzazione. Inoltre, il rischio è molto più elevato negli anziani e in chi soffre di altre patologie pregresse (malattie cardiovascolari, diabete, disturbi respiratori cronici, ipertensione). Le persone buona in salute, dunque, almeno a livello personale, non dovrebbero preoccuparsi più del dovuto. Ma le analogie con le sindromi influenzali possono essere fuorvianti.

A differenza dell’influenza stagionale, infatti, in cui le persone più esposte al rischio – anziani, malati cronici, personale sanitario – possono essere protette dal vaccino antinfluenzale, contro il nuovo coronavirus non c’è un vaccino disponibile. Questo significa che se la Covid-19 dovesse diffondersi nella popolazione come fa l’influenza stagionale, le conseguenze potrebbero essere ben più gravi, sia perché la letalità della Covid-19, per quanto ancora incerta, è più elevata della normale influenza, sia perché le fasce di popolazione più vulnerabili non hanno alcuna protezione. Si stima che in Italia ci siano 25 milioni di persone, in gran parte anziane, con malattie croniche. Le nostre strutture sanitarie, per quanto preparate ed efficienti, potrebbero essere messe a dura prova da un aumento esponenziale dei contagi. Senza contare i contraccolpi per le attività produttive se le misure di contenimento dovessero protrarsi a lungo.

Si tratta quindi di un rischio da non prendere affatto sottogamba, ma che al momento resta difficile da quantificare a causa delle tante incertezze in gioco. E non potendo quantificare il rischio, è altrettanto difficile stabilire se l’allarme sia giustificato o eccessivo. Gli scenari sono ancora tutti aperti: nessuno può escludere che l’epidemia si esaurisca con l’arrivo della bella stagione, come avviene per l’influenza stagionale e come accadde per la SARS nel 2003, ma al tempo stesso nessuno può escludere una pandemia con gravi impatti sanitari, economici e sociali. Il bilancio potrà essere fatto solo a emergenza finita. Quel che possiamo fare adesso è collaborare con le istituzioni per arginare la diffusione del coronavirus e mitigare le conseguenze sanitarie.

Il contenimento dei focolai

Così come già avvenuto in Cina, anche in Italia sono state prese severe misure di contenimento per circoscrivere il contagio. Se si arriva in tempo, cioè se si riescono a isolare rapidamente i primi casi e a ricostruire la catena di trasmissione del virus, si tratta di una strategia considerata efficace per spegnere sul nascere i focolai epidemici, o almeno per rallentare l’epidemia e facilitare la gestione sanitaria.

Bisogna però valutare caso per caso se le misure di contenimento sono davvero necessarie perché, inevitabilmente, avranno anche un costo sociale. Nelle aree dove circola il virus, e dove quindi il rischio di contagio è più elevato, limitare le attività nei luoghi di maggiore aggregazione appare senz’altro una decisione saggia. Meno chiara è la necessità di provvedimenti altrettanto drastici in regioni dove non si è ancora registrato alcun caso.

Si tratta di scelte difficili e talvolta con implicazioni etiche non trascurabili, come accade quando si tratta di imporre delle limitazioni alle libertà personali per un beneficio della collettività. Nel caso dell’isolamento forzato, per esempio, è lecito chiedersi se sia fatto soltanto nell’interesse di chi sta fuori e non di chi rimane dentro, come nota l’infettivologo Massimo Galli sul Corriere della Sera commentando un caso estremo, quello della nave da crociera Diamond Princess, in cui la quarantena imposta a passeggeri e membri dell’equipaggio ha portato al contagio di più di 630 persone.

Cambio di strategia

In ogni caso, come ha avvertito l’OMS già il 21 febbraio, con l’aumentare dei contagi fuori dalla Cina la finestra di opportunità per spegnere i focolai si sta chiudendo. In altre parole, potrebbe avvicinarsi il momento in cui dalla strategia del contenimento – identificare i casi sospetti, ricostruire le catene di trasmissione, isolare i focolai – si dovrà passare alla mitigazione degli impatti sanitari.

A quel punto dovremo abituarci a convivere con un nuovo virus che circolerà tra la popolazione, adottando le stesse misure di precauzione valide per l’influenza stagionale: lavarsi spesso le mani, evitare il contatto ravvicinato con le persone che mostrano i sintomi, coprirsi naso e bocca in caso di tosse o starnuti, e così via. Già oggi seguire il decalogo diffuso dal Ministero della Salute e adottare comportamenti responsabili è il modo migliore per proteggere se stessi e gli altri, e a maggior ragione continuerà ad esserlo se l’epidemia non potrà essere circoscritta.

A livello internazionale, l’OMS raccomanda invece agli Stati di sfruttare il tempo ancora a disposizione per preparare il personale e le strutture sanitarie a fronteggiare una maggiore diffusione del contagio. Come ha confidato a Repubblica Hans Kluge, direttore dell’OMS in Europa, purtroppo la comunità internazionale non ha ancora intrapreso azioni adeguate per rispondere a uno scenario pandemico.

Nella gestione dei rischi è cruciale essere sempre uno o due passi avanti. Se si reagisce soltanto alle contingenze anziché agire proattivamente in base a quel che potrebbe accadere domani, la prossima settimana o il mese prossimo, si finirà sempre per subire gli eventi anziché riuscire ad anticiparli e a governarli. Almeno per quanto possibile perché, come amava ripetere l’ex direttore generale dell’OMS, Margaret Chan, «l’unica cosa certa che si può dire con certezza dei virus è che sono imprevedibili».


Leggi anche: L’epidemia di COVID-19 è un imprevedibile «nemico pubblico»

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine di copertina: Pixabay

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).