AMBIENTE

Caldo record in Antartide: il gigante di ghiaccio si sta risvegliando?

Temperature senza precedenti e ghiacciai a rischio di collasso, dal continente antartico arriva un segnale d’allarme per il clima del pianeta

Giovedì 6 febbraio 2020. Penisola Antartica, 63° parallelo Sud. Gli scienziati argentini della base di ricerca Esperanza non credono ai propri occhi. Il termometro segna 18,4°C. È la temperatura più alta mai registrata su questa lingua di terra che dal continente antartico si estende verso le coste del Sud America. La notizia fa il giro del mondo e per un giorno il riscaldamento del pianeta torna a conquistare i titoli dei giornali facendosi spazio nella cronaca dall’epidemia di Covid-19. La comunità scientifica, invece, è più cauta.

Il presunto record dovrà infatti essere convalidato dalla World Meteorological Organization (WMO), l’organizzazione meteorologica mondiale. La Penisola Antartica, inoltre, si trova nell’estremo settentrionale del continente, ma se si considera l’intera regione antartica, cioè l’insieme di terre, isole e mari situate sotto il 60° parallelo, il record assoluto spetterebbe comunque ai 19,8°C registrati nel 1982 a Signy Island. Infine, come dice il proverbio, una rondine non fa primavera: non basta un giorno più caldo per invocare il riscaldamento globale. Il meteo, si sa, non è il clima.

Record dopo record

Mentre nella base di ricerca argentina si guarda con stupore ai termometri, sulla punta meridionale del Sud America c’è una cappa di alta pressione. Un vento caldo di föhn scende dalla cordigliera della Penisola Antartica. Tre giorni dopo, il 9 febbraio, nella stazione di monitoraggio di Seymour Island, al largo della Penisola antartica, si toccano addirittura i 20,75°C. Se confermato dalla WMO, sarà il nuovo record per l’intera regione antartica. Due rondini fanno primavera?

Gli esperti hanno attribuito queste temperature anomale a un mix di fattori meteorologici riconducibili alla variabilità naturale e agli sconvolgimenti nelle correnti marine e atmosferiche causate dal riscaldamento globale di origine antropica. E sebbene i climatologi siano più interessati agli andamenti di lungo periodo che ai record, non si può nascondere che questi picchi di temperatura potrebbero essere il segnale che qualcosa nella Penisola Antartica è mutato.

Il punto è che questi episodi di caldo record non sono affatto eventi isolati né inattesi. Al contrario, si iscrivono in un andamento che i modelli climatici hanno anticipato con accuratezza fin dagli anni Settanta. La Terra si scalda, sempre più in fretta. E l’Antartide, che finora sembrava protetto da un cintura di correnti più fredde, non sembra più fare eccezione. Il decennio che si è appena concluso è stato il più caldo da quando abbiamo misure sistematiche delle temperature terrestri. Il 2019 è stato il secondo anno più caldo mai registrato. E il mese di gennaio appena trascorso quello più caldo in assoluto, sia a livello globale, sia in Antartide.

Il gigante di ghiaccio

La Penisola Antartica è tra i luoghi del pianeta più sensibili al riscaldamento globale: la WMO stima che negli ultimi 50 anni la temperatura media sia già aumentata di 3°C. Lungo le sue coste occidentali circa l’87% dei ghiacciai si sta ritirando, negli ultimi 12 anni sempre più velocemente. Tuttavia non è questa stretta striscia di terra nell’estremo settentrionale del continente antartico a turbare maggiormente i climatologi.

L’Antartide è grande il doppio dell’Australia: è così esteso da comprendere regioni climatiche diverse. E mentre l’Antartide Orientale, dove lo spessore della calotta arriva a quasi cinque chilometri, sembra ancora insensibile al riscaldamento del pianeta, lungo il perimetro dell’Antartide Occidentale gli scienziati guardano con crescente preoccupazione alle correnti oceaniche sempre più calde che, insinuandosi sotto le calotte, ne mettono a rischio la stabilità.

Se il gigante addormentato dovesse risvegliarsi sarebbero guai seri. L’Antartide custodisce circa il 90% dell’acqua dolce della Terra in forma di neve e ghiaccio. Secondo la WMO, tra il 1979 e il 2017 il ghiaccio perso annualmente dalla calotta antartica è aumentato di almeno sei volte. Se tutto il ghiaccio fondesse, il livello medio del mare si alzerebbe di 60 metri, ridisegnando la geografia del pianeta. Non accadrà certo da un giorno all’altro: anche nel peggiore degli scenari, perché fonda tutto quel ghiaccio serviranno millenni. Ma è difficile azzardare previsioni: l’Antartide è un luogo ostile e remoto, dove è difficile raccogliere osservazioni sul campo. E in ogni caso, per mettere a rischio le coste del pianeta, basta molto meno.

Come collassa un ghiacciaio

Un anno fa, sfruttando una rara occasione di mare calmo e libero dai ghiacci, gli scienziati dell’International Thwaites Glacier Collaboration (ITGC) hanno potuto avvicinarsi al maestoso ghiacciaio di Thwaites, nell’Antartide Occidentale. «Le condizioni erano perfette, potevamo quasi toccare il bordo», ha raccontato a Nature l’oceanografa Anna Wåhlin dell’Università di Göteborg (Svezia). Con un sottomarino robotizzato, gli scienziati hanno raccolto dati preziosi sulle correnti oceaniche più calde che si insinuano sotto la piattaforma del ghiacciaio. E quel che hanno scoperto è inquietante. «L’acqua calda arriva da tre direzioni. È come se il Thwaites avesse tre pistole puntate alla tempia», ha detto senza giri di parole il glaciologo Erin Pettit che coordina la ricerche dell’ITGC.

Il timore è che queste correnti possano destabilizzare l’intera struttura, che non è affatto una lastra di ghiaccio uniforme: i dati radar mostrano che nel ventre del ghiacciaio si cela un intricato paesaggio di canali, creste e scogliere modellati da flussi di acqua più calda. Il ghiacciaio di Thwaites si estende per 120.000 chilometri quadrati (come la superficie della Gran Bretagna) e contiene abbastanza acqua da alzare di ben 65 centimetri il livello medio dei mari. Negli ultimi trent’anni la quantità di ghiaccio persa dal Thwaites è raddoppiata, ma i ricercatori dell’Earth Observatory della NASA ritengono che nel prossimo futuro il ghiacciaio possa subire cambiamenti ancora più drammatici. E se dovesse collassare, potrebbe portarsi dietro anche le regioni circostanti.

Nel 2002 gli scienziati erano rimasti senza parole di fronte al repentino collasso della piattaforma Larsen B, un evento che aveva ispirato anche la prima scena del film The Day After Tomorrow (2004). La calotta non si era soltanto spezzata: si era disintegrata nell’arco di poche settimane. Lo scorso 10 febbraio i satelliti hanno invece catturato l’immagine di un enorme iceberg che si è staccato da un altro ghiacciaio dell’Antartide Occidentale, il ghiacciaio di Pine Island. L’Agenzia spaziale europea (ESA) lo teneva d’occhio dal febbraio dell’anno scorso. In pochi mesi le fratture che lo solcavano si sono allargate fino a causare il distacco di un blocco di 300 chilometri quadrati, che si è letteralmente sbriciolato in una miriade di frammenti più piccoli.

Finora i ghiacciai dell’Antartide Occidentale hanno contribuito in misura modesta all’innalzamento del livello dei mari, ma questo potrebbe cambiare in fretta se il pianeta continuerà a scaldarsi. Gli scienziati dell’ITGC avvertono che il collasso del ghiacciaio Thwaites potrebbe destabilizzare l’intero Antartide Occidentale dando inizio a un terrificante effetto domino. Non accadrà dall’oggi al domani, ma se ridurremo le emissioni di gas serra, potrebbe avvenire già entro la fine del secolo. Come nella scena di un disaster movie che preferiremmo non vedere.


Leggi anche: La biodiversità dei fondali marini in Antartide

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine di copertina: Wikimedia Commons

Condividi su
Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).