LIBRI

Mercanti di dubbi

Una recensione inusuale: oggi vi raccontiamo di un libro pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti il 3 giugno del 2010, ma che è oggi incredibilmente attuale.

Nel novembre del 2018 lo U.S. Global Change Research Program, un ente governativo americano incaricato dal 1990 di studiare il cambiamento climatico e i suoi impatti sul paese, ha pubblicato The Fourth National Climate Assessment, un report sottotitolato “impatti, rischi e adattamento per gli Stati Uniti”. Tra le altre cose, si può leggere che “con il continuo aumento delle emissioni a tassi senza predenti, le perdite annuali di alcuni settori dell’economia raggiungeranno i centinaia di miliardi di dollari entro la fine del secolo”. Intercettato dai giornalisti, vedi per esempio il pezzo della BBC, il presidente Donald Trump ha semplicemente dichiarato “non ci credo“, per poi proseguire con confuse argomentazioni sulla “pulizia” di altri paesi del mondo e spingendosi a dire che “non va bene se gli Stati Uniti sono puliti e attorno ci sono altri paesi sporchi”.

Niente di nuovo sotto il sole, perché già si sapeva che Trump fosse un negazionista del cambiamento climatico, ma è la certificazione che, dal suo punto di vista, è una questione di credere o non credere. I fatti, invece, hanno poco o nullo spazio per entrare nel dibattito.

Rileggendo oggi Mercanti di dubbi, il libro-inchiesta pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti il 3 giugno del 2010, un brivido corre lungo la schiena, perché la scena che abbiamo appena descritto è solo una ben visibile ed eclatante conseguenza di un fenomeno di più lungo corso. Secondo i due storici che l’hanno scritto, Naomi Oreskes ed Erik M. Conway, si è trattato della costruzione di un vero e proprio sistema di discredito della scienza nel settore ambientale.

L’operazione è perfettamente riuscita se, come racconta a Emanuele Bompan nell’intervista in apertura dell’edizione italiana, Oreskes sottolinea come “in privato molti politici repubblicani ammettono che il cambiamento climatico sia reale e che l’evidenza scientifica sia inconfutabile”. Ma non possono dichiararlo pubblicamente, perché “relegati in un angolo da un discorso mediatico più ampio”. Insomma, ricordano un po’ il padre Florestano Pizarro inventato da Corrado Guzzanti che dice quello che deve dire perché “il nostro è un lavoro“.

Come funzione la macchina del dubbio

E chi l’ha messa in moto? Si tratta di un piccolo gruppo di politici, scienziati, industriali che, coadiuvati da alcuni mezzi di comunicazione compiacenti, hanno diffuso coscientemente un cultura del dubbio all’interno del dibattito pubblico americano prima e, poi, globale. I fili e i rapporti tra i vari attori possono sembrare anche molto complessi, e Oreskes e Conway sono stati meticolosi nel ricostruirli facendo nomi e cognomi, ma in fondo si basano su principi piuttosto semplici. Innanzitutto cercando di creare un’apparente divisione all’interno della comunità scientifica, cercando di fare passare l’idea che non tutti gli scienziati concordassero sulla realtà del cambiamento climatico. Poi spargendo a pioggia argomentazioni che potessero indurre all’inazione.

Ne è un esempio la constatazione che se si comportano male gli altri attorno a me, allora è inutile che sia proprio io a comportarmi bene. In un modo simile all’argomentazione utilizzata da Trump a proposito del rapporto dello U.S. Global Change Research Program in apertura. E hanno, infine, proprio diffuso notizie false.

Ne dà un assaggio la stessa Oreskes nell’intervista a Bompan: alla rivoluzione energetica californiana, arrivata a produrre il 50% dell’energia consumata nello Stato da fonti rinnovabili, i mercanti di dubbi hanno opposto affermazioni semplicemente false, come per esempio quando accusano le fonti rinnovabili di essere poco affidabili e intermittenti o ne associano l’uso all’essere effeminati o deboli. Ma intanto hanno circolato e continuano a circolare, rendendo sempre più complicato distinguere a prima vista un fatto da una fake news.

Il ruolo della politica

Per Oreskes e Conway a guadagnarci, direttamente e indirettamente, sono i promotori di una politica del laissez-faire, perché “il mercato si regola da sé”, che avevano bisogno di incrinare la compattezza delle posizioni di allarme della scienza per promuovere una forma ancora più spinta di liberismo capitalista. La politica, tra i cattivi di questa storia, allora si trova in una posizione forse peggiore degli altri, perché – dice la Oreskes – “la negligenza della classe politica è scioccante”: persone che hanno il potere e le risorse per comprendere davvero come stanno le cose e invece hanno preferito piegare il proprio ruolo a guadagni rapidi, sia in termini di denaro, sia di potere. È “l’ideologia neoliberista il fondamento di questi meccanismi negazionisti, siano essi insiti nell’industria del tabacco o legati al clima e alle energie rinnovabili, settori disparati mossi da un unico motore ideologico. Questa politica dell’economia priva di regole spiega e motiva perché l’evidenza sia stata negata da interessi specifici”.

Con Trump, ma anche Nigel Farage nel Regno Unito, si è giunti alla saldatura tra negazionismo climatico/scientifico e populismo. Il virus del dubbio, mostrano Oreskes e Conway, può essere facilmente cavalcato, soprattutto se si possiedono risorse economiche importanti, per guadagnare consenso. A farne le spese sono i fatti, scientifici e storici, che perdono rilevanza a favore di coloro che urlano più forte.

Come reagire?

Detto subito che il libro-inchiesta non aveva come obiettivo la soluzione, quanto l’analisi del problema, si possono comunque trarre delle indicazioni. Per prima cosa, citando sempre Oreskes, il libro mostra “agli scienziati come il negazionismo non sia una questione di analfabetismo scientifico, che può essere dunque risolta con (ancora) più ricerca scientifica o con spiegazioni più chiare e convincenti. Tutto ciò è stato fatto, ma nel caso del clima non è servito”. Lo avevano dimostrato i tentativi dei decenni passati di educare il pubblico e la cittadinanza perché così potesse prendere decisioni maggiormente basate sui fatti. Il modello si chiamava Public Understanding of Science e lo stesso governo britannico che vi aveva investito pesantemente ha dovuto ammettere che non ha spostato l’opinione pubblica.

Anzi, suggerisce Oreskes, “se da un lato occorre incrementare la fiducia del pubblico nella scienza, è altrettanto giusto che il pubblico sia scettico. I cittadini non sono idioti. Dunque capiscono che quando oggettività e indipendenza possono essere compromesse dalla dipendenza da finanziamenti privati è bene non fidarsi. In alcuni casi si sbagliano, in altri possono aver ragione. Dunque il problema non è delle persone ma della comunità scientifica, che deve affrontare chiaramente la questione”. C’è necessità di trasparenza su chi finanzia chi e servono, dicono i due autori, delle linee guida precise su quando è lecito e quando non lo è accettare un finanziamento.

Bisogna anche attaccare quell’assunto privo di fondamento che circola tra alcuni scienziati e alcune scienziate, ovvero che siccome “siamo scienziati, allora siamo anche oggettivi e indipendenti”. Non è vero, perché anche la scienza è soggetta agli stessi bias di tutte le attività umane. Ed è ancor più complicato negli Stati Uniti che Oreskes e Conway conoscono bene, dove i finanziamenti privati, forme di ethical green washing non sono sempre facili da individuare. Il punto fondamentale è che tutti, dai media agli scienziati, dai politici ai semplici cittadini, dobbiamo rimanere vigili, continuare a studiare e non avere ma il dubbio se sia giusto esercitare lo spirito critico.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Marco Boscolo
Science writer, datajournalist, music lover e divoratore di libri e fumetti datajournalism.it