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Quando e come finirà l’epidemia di Covid-19: gli scenari più probabili

Riusciremo a contenere la diffusione del nuovo coronavirus? Quanto dureranno le restrizioni? Si estinguerà con l’arrivo dell’estate o la pandemia è ormai inevitabile? Le previsioni e i dubbi della comunità scientifica.

È la domanda che in questi giorni convulsi ci siamo fatti tutti: quando finirà l’emergenza? Nessuno può dirlo con certezza, così come è impossibile prefigurare quale sarà il bilancio finale dell’epidemia di COVID-19 in termini sanitari, economici e sociali. Molto dipenderà dalle misure predisposte a livello locale, nazionale e internazionale per arginare la diffusione del contagio e per mitigare l’impatto delle sue conseguenze. È proprio di ieri sera la notizia che tutta Italia è diventata”zona protetta”: le scuole di tutto il Paese rimarranno chiuse fino al 3 aprile, è obbligatorio rimanere a casa ed evitare ogni spostamento se non per motivi di comprovata necessità. In buona misura, tuttavia, la diffusione dipenderà anche dalle caratteristiche del nuovo coronavirus (SARS-CoV-2), su cui gravano ancora molte incognite. Si possono però delineare gli scenari più probabili su quel che potrebbe accadere nei prossimi mesi.

Non è un esercizio velleitario: nella gestione del rischio, anticipare gli eventi è fondamentale per non farsi trovare impreparati. E sebbene non tutto possa essere previsto – l’incertezza è una caratteristica intrinseca dei rischi emergenti, categoria in cui rientrano anche le minacce pandemiche – prepararsi in modo flessibile ai diversi scenari è l’unico modo per avere qualche possibilità di governare una crisi, attrezzandosi per tempo a fronteggiare l’emergenza nei suoi diversi impatti sanitari, economici, sociali e psicologici – anziché rassegnarsi a subire gli eventi. Ecco dunque cosa possiamo aspettarci in Italia e nel mondo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

Contenere l’epidemia

Nel primo scenario, il più ottimista, le misure di contenimento messe in campo per spezzare la catena dei contagi e arginare la diffusione del nuovo coronavirus riusciranno a estinguere, nell’arco di alcuni mesi, i principali focolai epidemici, evitando un contagio su scala globale. È quel che si è auspicato fin dal principio, quando il governo di Pechino ha predisposto misure di contenimento senza precedenti per isolare Wuhan e la provincia dell’Hubei, dove si è originato il primo focolaio della COVID-19. Tuttavia, forse anche a causa del ritardo con cui è stato lanciato l’allarme, ma soprattutto per le caratteristiche del virus, è risultato ben presto evidente che sarebbe stato difficile evitare il propagarsi del contagio in altre nazioni.

Il nuovo coronavirus, infatti, oltre a essere piuttosto contagioso, nella gran parte delle persone infette causa sintomi lievi che possono essere facilmente confusi con un raffreddore o un’influenza, rendendo più difficile identificare i casi sospetti e arginare la diffusione dell’epidemia. A differenza della SARS, infatti, che causava sintomi più evidenti e più facilmente riconoscibili, le persone contagiate possono persino ignorare di avere contratto la COVID-19 e continuare a recarsi al lavoro o a spostarsi da una città all’altra diffondendo l’epidemia. Man mano che sono stati scoperti altri focolai attivi al di fuori dalla Cina, l’ipotesi di riuscire a spegnere l’epidemia con le misure di contenimento si è rivelata sempre meno probabile.

Rallentare l’epidemia

Fin dal principio, del resto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva chiarito che, più che a fermare il contagio, le misure di contenimento sarebbero servite a rallentarne la diffusione,  facendo guadagnare ai governi tempo prezioso per preparare le strutture sanitarie e la popolazione all’arrivo dell’epidemia. Negli ultimi giorni, anche in Italia è diventato chiaro che le misure di contenimento sono essenziali per dilazionare nel tempo i ricoveri ospedalieri dei pazienti più gravi ed evitare di esaurire i posti letto nei reparti di terapia intensiva. Senza queste misure, il rischio è che le strutture sanitarie non siano in grado di offrire adeguata assistenza a tutte le persone bisognose di cure mediche: non soltanto a chi sia affetto da COVID-19, ma a chiunque necessiti di pronto soccorso o di terapie intensive per qualsiasi altra ragione.

In un editoriale del 7 marzo la rivista scientifica The Lancet aveva bacchettato l’Europa per avere fatto troppo poco e aver reagito troppo tardi, esortando i governi europei a seguire l’esempio della Cina nell’intraprendere drastiche azioni di contenimento più decise, senza farsi frenare dal timore delle ricadute negative economiche e politiche a breve termine. Per quanto fonte di disagio, le misure di contenimento possono salvare migliaia di vite umane e secondo gli esperti dovranno protrarsi anche dopo che si sarà raggiunto il picco dell’epidemia, per evitare che il virus, non appena si allentino le restrizioni, torni a diffondersi vanificando i sacrifici fatti. L’8 marzo il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), Silvio Brusaferro, ha ammesso che non si sentiva di fare previsioni sul tempo necessario a raggiungere il picco dei contagi. Gli esperti avvertono che con ogni probabilità i provvedimenti restrittivi dovranno durare alcuni mesi. In Cina, dove sono state intraprese misure di contenimento ben più drastiche, è stato necessario attendere sei settimane per osservare i primi segnali di un’inversione di tendenza.

Poiché inoltre, come detto, il contenimento serve a rallentare l’epidemia, più che ad arrestarla, dobbiamo attenderci che le restrizioni siano progressivamente estese in altre Regioni italiane. In questa fase è però cruciale che il tempo guadagnato rallentando la diffusione della COVID-19 sia impiegato per attrezzare le strutture sanitarie del centro e del sud Italia, dove secondo Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (FNOMCeO), gli ospedali sono meno attrezzati per affrontare l’emergenza.

L’arrivo dell’estate

Alcuni esperti hanno ipotizzato che epidemia di COVID-19 potrebbe estinguersi da sé con l’arrivo della stagione calda, come avviene per l’influenza o per il raffreddore. I meccanismi non sono del tutto noti, ma l’evidenza mostra che molti virus respiratori si trasmettono con più difficoltà in primavera e in estate. Sarà così anche per il nuovo coronavirus? L’ipotesi è suffragata da quel che avvenne nel caso della SARS, che comparve nel novembre 2002 e fece registrare gli ultimi contagi nel luglio del 2003. D’altro canto, però, il coronavirus della MERS, emerso nel 2012 in Arabia Saudita e diffuso in Medio Oriente, non sembra essere suscettibile alle alte temperature.

L’ipotesi che l’arrivo della primavera possa frenare l’epidemia è stata ripresa in Italia sia dalla virologa Ilaria Capua, che ha definito la COVID-19 una sindrome simil-influenzale, sia dal collega Roberto Burioni, che però ha invitato gli italiani a tenere duro negli sforzi per rallentare la diffusione del contagio. Burioni ha infatti avvertito che la speranza che la bella stagione possa darci una mano al momento è soltanto un’ipotesi.

Anche l’OMS ha invitato a non fare troppo affidamento su questo scenario ottimistico, che potrebbe rivelarsi una falsa speranza. «Questo è un virus unico, con caratteristiche uniche. Non è la SARS né l’influenza», ha affermato il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus. «Siamo in un territorio inesplorato». Una posizione ribadita lo scorso 6 marzo anche da Mike Ryan, responsabile delle emergenze sanitarie dell’OMS, che ha smorzato le speranze dichiarando che «al momento non c’è alcun segnale che indichi che il coronavirus sparirà in estate come una normale influenza».

La pandemia

Se non sarà possibile fermare il contagio, la COVID-19 darà vita a una pandemia, definita dall’OMS come la diffusione di una nuova malattia su scala globale. Per molti virologi ed epidemiologi, oggi è questo lo scenario più probabile. Al 9 marzo il bilancio è salito a oltre 111 mila casi confermati in 109 nazioni e il momento in cui l’OMS dichiarerà la pandemia potrebbe essere imminente.

Sebbene l’OMS abbia già elevato l’allerta globale al livello più alto possibile, finora ha preferito rinviare la dichiarazione di pandemia per concentrare gli sforzi sulle misure di contenimento, nella convinzione che sia ancora possibile limitare la diffusione del contagio. «Contenere l’epidemia deve restare la priorità assoluta per ogni nazione», ha ribadito più volte Tedros, esortando però tutti i governi a fare il possibile per prepararsi anche allo scenario pandemico, che l’OMS considera una minaccia reale.

A quel punto, gli sforzi per isolare i casi sospetti, ricostruire le catene di trasmissione e circoscrivere i focolai epidemici con restrizioni e quarantene cesseranno di avere la priorità. Sebbene con tempistiche e modalità diverse, a seconda dello stadio di diffusione dell’epidemia nelle diverse aree geografiche, il contenimento sarà gradualmente sostituito da misure per mitigare le conseguenze sanitarie, molto simili a quelle seguite per l’influenza stagionale: restare in casa se si hanno sintomi moderati, in attesa del decorso naturale della malattia, e riservare le cure mediche ai pazienti che sviluppano le patologie più gravi. In questo scenario il coronavirus SARS-CoV-2 è infatti destinato a diventare endemico e continuerà a circolare per anni nella popolazione, ripresentandosi a ondate successive come l’influenza stagionale. La speranza è che la letalità del virus possa attenuarsi nel tempo e che abbiano successo gli sforzi per sviluppare un vaccino.

Lo scenario peggiore

La definizione di pandemia dell’OMS non fa riferimento alla gravità dell’epidemia, cioè al numero di vittime, bensì soltanto al grado di diffusione del patogeno. Il bilancio finale può dunque risultare più o meno severo al variare della letalità dell’agente infettivo, definito come la percentuale di decessi rispetto ai contagi. Sebbene persista ancora un certo grado di incertezza sulla letalità del nuovo coronavirus, si stima però che circa l’80% delle persone che contraggono la COVID-19 presenti sintomi lievi o risulti addirittura asintomatico. Meno del 15% delle persone colpite sviluppa sindromi importanti che possono portare al ricovero ospedaliero e solo il 5% sviluppa una patologia grave che necessita di terapie intensive. Questo significa che la gran parte delle persone che si ammalano non ha conseguenze significative per la salute.

Tuttavia, se il nuovo coronavirus dovesse diffondersi a livello globale, le conseguenze potrebbero essere molto gravi, sia perché la letalità della COVID-19, per quanto ancora incerta, è più elevata di una normale influenza, sia perché al momento le fasce di popolazione più vulnerabili – anziani, malati cronici e personale sanitario – non possono essere protette con un vaccino, che nella migliore delle ipotesi non sarà disponibile prima di 12-18 mesi. Inoltre, trattandosi di un virus mai circolato in precedenza fra gli esseri umani, e dunque contro cui nessuno possiede un’immunità, l’intera popolazione mondiale è suscettibile al contagio.

Lo scenario peggiore è stato delineato sull’Atlantic dall’epidemiologo Marc Lipsith dell’Università di Harvard (Stati Uniti). Secondo Lipsith il nuovo coronavirus potrebbe essere incontenibile e contagiare entro un anno il 40-70% della popolazione mondiale. Senza vaccini e cure specifiche, l’esito potrebbe essere drammatico, soprattutto se l’aumento dei contagi minerà la capacità di risposta dei servizi sanitari nelle nazioni a economia avanzata, e ancor di più se il virus riuscirà a diffondersi nelle nazioni più povere e vulnerabili, una preoccupazione più volte espressa dall’OMS. In questo scenario, si conteranno purtroppo milioni di morti, a cui si aggiunge il rischio di una recessione economica globale. Sebbene questo scenario non sia ritenuto il più probabile, purtroppo al momento non si può neppure escluderlo. Ecco perché è così importante prendere sul serio la minaccia e fare ogni sforzo, individuale e collettivo, per scongiurare una più ampia diffusione del nuovo coronavirus.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Gif: Dr Siouxsie Wiles

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).