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Covid-19: i farmaci in via di sperimentazione

Dall'inizio della pandemia di Coronavirus centinaia di medici e ricercatori lavorano per trovare possibili strategie per la cura della COVID-19.

Dall’inizio della pandemia di Coronavirus centinaia di medici e ricercatori lavorano per trovare possibili strategie per la cura della COVID-19, la malattia causata dal virus. Sono state già testate decine di farmaci, approvati e utilizzati comunemente per il trattamento di altre malattie. In momenti come questo, il “riposizionamento del farmaco” è particolarmente importante perché permette di ridurre i rischi di tossicità, richiede poco tempo e bassi costi. L’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha ribadito che nessun farmaco ha ancora dimostrato la sua efficacia nel trattamento del COVID-19 ma sta monitorando lo sviluppo di 40 possibili terapie.

I candidati per la terapia COVID-19 si possono dividere in farmaci diretti contro il virus e farmaci che agiscono sulla risposta dell’ospite. I primi sono utilizzati come cura nelle prime fasi della malattia per bloccare la replicazione virale. I pazienti che si trovano nelle fasi avanzate, invece, potrebbero beneficiare di farmaci che hanno come bersaglio alcune molecole coinvolte nella risposta infiammatoria. I dati sull’evoluzione della patologia indicano infatti che l’iper-infiammazione è la principale causa di danno polmonare.

Tra i farmaci sottoposti a sperimentazione clinica diretti contro il virus ci sono antivirali (remdesivir, la combinazione lopinavir/ritonavir e darunavir), clorochina e idrossiclorochina. Tra i farmaci che agiscono come modulatori della risposta dell’ospite ci sono gli anticorpi monoclonali diretti contro alcune componenti del sistema immunitario.

Terapie con antivirali

Il remdesivir è un inibitore della polimerasi dell’RNA virale, cioè interferisce con la produzione di materiale genetico virale, impedendo al virus di moltiplicarsi.  È stato sviluppato dalla multinazionale americana Gilead Sciences per il trattamento della malattia da virus Ebola. In vitro ha dimostrato un’ampia attività contro diversi virus a RNA, tra cui SARS-CoV-2. L’Italia partecipa a due studi di fase 3 promossi dall’azienda per valutare l’efficacia e la sicurezza della molecola sperimentale negli adulti ricoverati con diagnosi di COVID-19. Il farmaco non è ancora approvato dalle autorità regolatorie per uso terapeutico. L’Agenzia europea per i medicinali, però, ha fornito indicazioni sull’uso compassionevole, cioè per il trattamento di singoli pazienti affetti da COVID-19 in gravi condizioni e senza valide alternative terapeutiche.

Il farmaco commercializzato con il nome Kaletra® comprende una combinazione dei due antivirali lopinavir/ritonavir ed è utilizzato nelle infezioni da HIV. Il lopinavir e il ritonavir bloccano la replicazione del virus perché inibiscono il funzionamento di due proteasi, enzimi fondamentali per costruire la struttura finale del virus. Esperienze precedenti con l’infezione da SARS-CoV-1 e MERS suggeriscono che Lopinavir può migliorare alcuni parametri clinici dei pazienti.

Sono in corso numerosi studi che coinvolgono lopinavir/ritonavir da solo o associato ad altri antivirali di cui si attendono i risultati nei prossimi mesi. Uno studio pubblicato il 18 marzo sul New England Journal of Medicine non ha evidenziato nessun beneficio clinico in pazienti COVID-19. L’Agenzia Italiana del Farmaco ha però deciso di autorizzare l’utilizzo del farmaco perché ritiene che i risultati dello studio siano validi solo per pazienti con un quadro clinico grave e instabile. Per pazienti meno gravi che iniziano precocemente la terapia non esistono dati che possano confermare o confutare l’efficacia del farmaco.

Terapia con clorochina e idrossiclorochina

Gli altri due farmaci il cui uso è stato autorizzato dall’AIFA sono darunavir/cobicistat e idrossiclorochina. Come lopinavir e ritonavir, anche darunavir è un inibitore delle proteasi. È associato al cobicistat nel farmaco Rezolsta®, che viene utilizzato nella terapia antiretrovirale per il trattamento dell’HIV. La sua efficacia rispetto a COVID-19 è solo aneddotica, e al momento è in corso solo un piccolo studio clinico in Cina. Secondo l’AIFA il suo vantaggio clinico è la maggiore tollerabilità intestinale rispetto a lopinavir/ritonavir.

Clorochina e idrossiclorochina sono molecole autorizzate a livello nazionale per il trattamento della malaria e di alcune malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide. Studi in vitro o in modelli animali hanno dimostrato di possedere un effetto antivirale che impedisce la fusione tra il virus e la cellula e la replicazione del virus. L’idrossiclorochina (Plaquenil®) nel nostro Paese è utilizzata in campo reumatologico anche per periodi molto prolungati e, rispetto alla clorochina, si hanno maggiori dati sulla tollerabilità. Secondo l’AIFA l’uso terapeutico dell’idrossiclorochina può essere considerato sia nei pazienti COVID-19 di minore gravità gestiti a domicilio sia nei pazienti ospedalizzati, valutando caso per caso il rapporto rischio/beneficio.

L’utilizzo del plasma

Un’altra strategia terapeutica per cui sono stati avviati dei trial clinici prevede l’uso di plasma da pazienti COVID-19 guariti. In Italia Cesare Perotti ha avviato una sperimentazione presso il Policlinico San Matteo di Pavia, che coinvolge anche l’ospedale Carlo Poma di Mantova, l’ospedale Maggiore di Lodi e l’ospedale di Cremona. L’uso del plasma è stato già applicato nel caso del virus H1N1, Ebola e SARS e ha dato risultati positivi. Una delle ipotesi è che gli anticorpi contenuti nel plasma possano sopprimere la viremia, cioè le particelle virali presenti nel sangue.

Terapie con anticorpi monoclonali

Le sperimentazioni che sfruttano gli anticorpi monoclonali si concentrano sulla modulazione della risposta immunitaria dell’ospite. Il tocilizumab, uno degli anticorpi più studiati, si lega al recettore dell’interleuchina-6, una molecola coinvolta in diversi processi fisiologici e nella patogenesi di vari disordini infiammatori e autoimmuni. L’interleuchina-6 viene sintetizzata dalle cellule immunitarie in seguito all’infezione di SARS-CoV-2. Una eccessiva produzione di questa molecola potrebbe essere la causa della risposta infiammatoria sproporzionata che si osserva in alcuni pazienti COVID-19. L’ipotesi è quindi quella di bloccare il recettore di IL-6 per rallentare l’infiammazione e ritardare il danno polmonare. Al momento il farmaco viene già utilizzato in altre patologie come l’artrite reumatoide.

Francesco Perrone dell’Istituto Tumori di Napoli sta conducendo un trial clinico di fase 2 sul tocilizumab che coinvolge 330 partecipanti e 27 centri. L’AIFA ha poi approvato altre due sperimentazioni cliniche per questo anticorpo, una delle quali, sponsorizzata da Roche, si trova in fase 3. L’AIFA ha autorizzato anche altre sperimentazioni basate su altri anticorpi monoclonali, tra i quali il sarilumab, un farmaco usato per il trattamento dell’artrite che ha un meccanismo simile a quello del tocilizumab.

Per unire lo sforzo delle decine di sperimentazioni cliniche in corso, a fine marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato Solidarity, un mega-trial tra i più ampi mai realizzati. Lo scopo dell’iniziativa è sperimentare le quattro terapie che al momento sembrano più efficaci: remdesivir, clorochina e idrossiclorochina, lopinavir/ritonavir e lopinavir/ritonavir in associazione con l’interferone beta, una molecola utilizzata per la terapia di alcune forme di sclerosi multipla. Secondo l’OMS permetterà di ridurre i tempi dell’80%. I primi risultati si dovrebbero avere entro poche settimane.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Francesca Camilli
Comunicatrice della scienza e giornalista pubblicista. Ho una laurea in biotecnologie mediche e un master in giornalismo scientifico.