SALUTE

Suicidio in bambini e adolescenti: per una politica della prevenzione

8 bambini su cento, in un’età tra i 9 e i 10 anni, hanno idee suicidarie: la situazione in Italia e nel mondo.

È dello scorso dicembre la notizia di un bambino di nove anni che ha tentato il suicidio. Una notizia di tale portata che ha evocato in tutti noi emozioni diverse: dalla negazione alla stigmatizzazione, dall’interrogarsi sul perché al domandarsi se potrebbe capitare anche ai nostri figli al chiedersi quali siano le responsabilità degli adulti.

Un’indagine condotta negli Stati Uniti, pubblicata su Lancet Psychiatry, ha concluso che 8 bambini su cento, in un’età tra i 9 e i 10 anni, regolarmente o saltuariamente, abbiano idee suicidarie o prendano in seria considerazione l’idea di togliersi la vita o arrivino a pianificare questo gesto estremo. In America, il suicidio negli adolescenti tra i 10 e i 14 anni è la seconda principale causa di morte, il numero di pazienti della stessa età che hanno varcato la soglia del pronto soccorso per tentato suicidio è passata dallo 0,67% del 2008 al 1,79% del 2015.

Lo studio, co-condotto da Sophia Frangou dell’Icahn School of Medicine al Mount Sinai di New York, ha analizzato il comportamento di 7994 bambini tra i 9 e i 10 anni di 22 città del Nord America, reclutando i partecipanti in base a sesso, etnia, estrazione socio-economica e vicinanza al centro urbano: si tratta del 20% dei bambini di questa età dell’intera popolazione statunitense. Lo studio Adolescent Brain Cognitive Development (ABCD) è il più ampio nel suo genere mai condotto e, a detta degli autori, il primo così approfondito a livello metodologico. Ai bambini e ai loro genitori è stato sottoposto un questionario individuale molto analitico: i dati raccolti dimostrano che “l’8% dei bambini intervistati manifesta pensieri suicidari a cui sono saldamente legate problematiche psicologiche, come ansia e depressione, e conflitti familiari. Informazioni importanti per gli specialisti che si trovano ad aiutare i bambini e le loro famiglie” dichiara Sophia Frangou.

Un altro dato molto significativo, evidenziato dallo studio, è la discrepanza nella percezione del problema da parte di chi si prende cura dei bambini: se l’8% a 9-10 anni manifesta pensieri suicidari, ma è estremamente raro che arrivi a compiere questo atto, sul versante genitoriale vi è una scarsa percezione del problema, segno che quanto riportato dai caregiver non sia un dato affidabile preso di per sé, ma debba essere raffrontato con le risposte date dai bambini.

Lo studio ha dimostrato il legame direttamente proporzionale tra tempo trascorso davanti alla televisione e mezzi di intrattenimento tecnologici (ad esempio smartphone e tablet) e aumento dei pensieri suicidari.
Un aspetto sul quale è possibile intervenire ma che, in questo studio, viene secondo rispetto al fattore familiare: “Non sappiamo come oggettivarlo: quanto la famiglia sia l’elemento cardine nel coltivare la salute mentale dei bambini. Nel suicidio dell’adulto si va a cercare l’elemento puntiforme, ma il suicidio è multifattoriale” afferma Maurizio Pompili, co-autore dello studio, Professore Ordinario di Psichiatria all’Università La Sapienza, fondatore e responsabile del Servizio per la Prevenzione del Suicidio presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea. “Anche ad età più precoci, il modello è sempre lo stesso: al bambino non viene data la possibilità di realizzarsi perché è circondato da conflitti, litigi, responsabilità, comportamenti impropri. Quel bambino inizia quindi a soffrire, a voler trovare una scappatoia a questa sofferenza, che per lui diventa man mano intollerabile”.

Sentirsi in una situazione di sofferenza intollerabile può portare il bambino, come l’adulto, a vedere nel suicidio l’unica soluzione:  “Nel bambino, bisogna immaginarsi e immedesimarsi nella sua mente fragile, capire che cosa sperimenta, ad esempio, quando vede i genitori litigare oppure è esposto a situazioni, immagini, ecc. poco consone alla sua età. Per esempio, nel caso di intricate disfunzioni familiari che perdurano nel tempo, laddove i litigi non portano a nulla, il bambino può sviluppare un sentimento di disperazione. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, elementi traumatici, come le liti, sono di breve durata e possono essere costruttive ammesso che i genitori arrivino a spiegare il perché ci sono state incomprensioni e ad accogliere quella creatura. Se questo non avviene, ma il modello si adatta a tutte le situazioni avverse, il soggetto matura una fragilità sempre maggiore e quindi arriva alla conclusione che la vita non vale la pena di essere vissuta”.

La situazione in Italia

Il suicidio nei bambini è un fenomeno raro ma drammatico e l’Italia non è ovviamente estranea al problema. Alcuni studi condotti tra il 2009 e il 2012 dal gruppo del Prof. Pompili hanno messo in luce come si siano fatti importanti passi avanti nella prevenzione dei fattori di rischio di decesso negli adolescenti – uno su tutti l’obbligo del casco per chi usa il motorino – e come tali provvedimenti abbiano diminuito la mortalità. Per quanto riguarda il suicidio non si può dire che la mortalità sia rimasta invariata, poiché dalla metà degli anni Novanta si è registrato un aumento, rispetto alla media mondiale, dei suicidi tra gli adolescenti maschi tra i 14 e i 19 anni. Non si è ancora riusciti a dare una spiegazione univoca a questo incremento, ma si è capito che in Italia mancano strategie preventive del suicidio.

“Noi spesso parliamo di ‘visione tunnel’, perché è come se il soggetto vivesse in un tunnel in cui non riesce a intuire opzioni per risolvere la propria sofferenza” racconta Pompili. “La persona vede in una sola direzione, quasi con un restringimento cognitivo, e prosegue inesorabile verso la scelta suicidaria. Ma è proprio lì che inizia la nostra sfida, durante il percorso suicidario, interrompendo il viaggio in questo tunnel con delle soluzioni alternative grazie alla comprensione umana ed empatica della sofferenza che accompagna quel soggetto. Il suicidio non si può prevenire se non ci si mette nei panni della persona che sta soffrendo, pena il fallimento dell’intervento terapeutico”.

Al nesso tra uso eccessivo delle nuove tecnologie e suicidio, sottolineato nello studio su Lancet Psychatry, si ricollega il fenomeno del cyberbullismo, “estremizzato dalle nuove tecnologie” afferma Pompili. “Un adolescente su 6 è vittima di cyberbullismo – in rapporto 2 a 1 per le ragazze – e soltanto un adolescente su 6 riesce ad essere aiutato”. Pompili fa riferimento ai risultati di una recente ricerca condotta in Canada in cui si riscontra come la cybervictimisation sia associata in maniera peculiare con il rischio di suicidio. “Noi spieghiamo il suicidio riferendoci al modello del dolore mentale, che è fatto di emozioni intollerabili, negative, senso di vergogna, sconfitta, umiliazione” spiega lo psichiatra, una serie di pensieri lesivi che gettano il soggetto in una condizione di sofferenza estrema e a pensare al suicidio come la migliore soluzione per venirne fuori.

Una maggiore supervisione dei genitori sulle attività dei figli – ad esempio: sapere dove sono, che cosa stanno facendo e con chi – e la promozione nel bambino di una visione positiva della scuola sono i due fattori protettivi fondamentali rispetto al rischio di suicidio nei bambini individuati dallo studio Lancet. Questi due soli elementi aiuterebbero nella costruzione dell’identità, dell’autostima e della capacità di affrontare le difficoltà.

“La paura dello stigma, le difficoltà di comunicazione, la carenza di supporto a livello sociale e familiare sono ostacoli che possono far desistere il bambino a voler parlare della propria salute mentale” afferma Beatriz Luna dell’Università di Pittsburgh, co-autrice dello studio. “Si tratta di bambini estremamente bisognosi e desiderosi di trovare una sponda sicura sulla quale appoggiarsi” aggiunge Maurizio Pompili, “perché si sentono estremamente soli, disperati, colpevolizzati”.
Ed è, come si diceva, una situazione che si può trovare in maniera analoga negli adulti. “Solo se viene data loro la possibilità di sentirsi compresi possono riscoprire la possibilità di farcela e quella voglia di vivere che non è stata mai persa. Solo allora si può lavorare nell’intervento terapeutico”.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Federica Lavarini
Dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne, ho frequentato il master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste (SISSA). Sono giornalista pubblicista e scrivo, o ho scritto, su OggiScienza, Wired, La Lettura del Corriere della Sera, Rivista Micron, Il Bo Live, la Repubblica, Scienza in Rete.