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Serve un piano a lungo termine per uscire dalla pandemia di Covid-19

La scienza è tornata al centro della scena, dettando l’agenda ai governi. Ma per gestire la crisi abbiamo bisogno di una strategia di ampio respiro e di un maggior coinvolgimento sociale

È ormai evidente che siamo di fronte a un evento epocale: la pandemia di COVID-19 ha già stravolto molte abitudini consolidate ed è destinata ad avere un impatto senza uguali in tempo di pace sulle società contemporanee. Mentre il contagio continua a diffondersi (al 7 aprile si contano più di 1.300.000 casi confermati in 184 nazioni del mondo), gli epidemiologi avvertono che occorre elaborare una strategia di lungo periodo per convivere con il nuovo coronavirus, con ogni probabilità destinato a circolare fra gli esseri umani almeno finché non avremo sviluppato un vaccino. Secondo molti osservatori, inoltre, le scelte che siamo chiamati a fare oggi avranno ripercussioni durature anche nel dopo-pandemia. Per questo è importante che, oltre agli esperti scientifici, la discussione coinvolga i saperi umanistici e l’intera società.

Guadagnare tempo

È vero, nell’incertezza la scienza è tornata a svolgere un ruolo guida, influenzando l’agenda politica come raramente accade. Del resto, l’emergenza ha lasciato ai governi stretti margini di manovra. Lo si è capito subito dopo la pubblicazione dell’ormai celebre studio condotto da Neil Ferguson, epidemiologo dell’Imperial College di Londra, sui possibili impatti della COVID-19.

Secondo gli scenari delineati da Ferguson, infatti, senza interventi per “sopprimere” la circolazione virale, le vittime in Gran Bretagna arriverebbero a oltre mezzo milione, negli Stati Uniti addirittura a 2,2 milioni, senza nemmeno contare i decessi aggiuntivi causati dal collasso delle strutture ospedaliere. Un costo troppo alto persino per il presidente statunitense Donald Trump e per il premier nipponico Shinzo Abe, tra i più riluttanti a introdurre restrizioni che potessero danneggiare l’economia, ma infine costretti a dare ascolto ai loro consiglieri scientifici e a dichiarare lo stato di emergenza.

Di fronte a questi terribili scenari la parola d’ordine è diventata “guadagnare tempo”. Tempo per aggiungere posti letto nei reparti di terapia intensiva. Tempo per dotare medici, infermieri e cittadini di mascherine. Tempo per mettere a punto un sistema efficace per isolare i casi sospetti, tracciare le catene del contagio e spegnere sul nascere i prossimi focolai. Tempo per testare gli antivirali disponibili, svilupparne di nuovi e lavorare a un vaccino.

La quarantena “stop and go”

C’è un solo modo per guadagnare tempo con un agente infettivo: rallentarne la diffusione riducendo le occasioni di contagio. In altre parole, limitando la nostra socialità. La Cina ha reagito imponendo tre mesi di rigida quarantena alla città di Wuhan e alla provincia dell’Hubei, dove si è originato il primo focolaio dell’epidemia. Una strategia che in seguito il governo italiano ha cercato di imitare, vietando gli spostamenti e le attività produttive non essenziali su tutto il territorio nazionale.

È però evidente che il lockdown di un intero Paese non può essere prolungato a oltranza. Gli impatti sull’economia sarebbero infatti devastanti e finirebbero per ripercuotersi anche sulla salute delle fasce di popolazione più svantaggiate, causando sofferenze insostenibili alle persone più fragili e bisognose di assistenza. Secondo l’Economist, sebbene nessuno sia ancora disposto ad ammetterlo pubblicamente, ben presto il costo del distanziamento sociale potrebbe superare di gran lunga i benefici. D’altra parte gli epidemiologi avvertono che, non appena le misure vengono allentate, c’è il rischio che il virus torni a circolare. È già successo in questi giorni a Hong Kong e a Singapore, dove una seconda ondata di contagi ha imposto il ripristino delle misure di contenimento.

Come uscirne? Ferguson suggerisce un’alternanza di periodi di lockdown e periodi di allentamento delle misure di contenimento. Per l’Italia questo scenario potrebbe tradursi con il prolungarsi delle restrizioni fino a maggio o a giugno, seguito da una tregua di uno o due mesi, quindi un altro periodo di restrizioni, e così via fino a quando non sarà disponibile un vaccino oppure, nella peggiore delle ipotesi, quando la pandemia avrà fatto il suo corso, contagiando la gran parte della popolazione mondiale. La tempistiche di questo stop and go saranno dettate da due necessità: evitare il collasso del sistema sanitario e, al tempo stesso, fare in modo che la quarantena sia sostenibile dal punto di vista economico, sociale e psicologico.

Le voci mancanti

Nei prossimi mesi la scienza e la tecnologia continueranno a giocare un ruolo cruciale perché avremo bisogno di strumenti di sorveglianza epidemiologica affidabili per decidere se e quando allentare periodicamente le misure restrittive, magari anche con tempistiche diverse su scala regionale o per fasce d’età. Dovremo inoltre acquisire la capacità di identificare più rapidamente i casi sospetti e impedire il diffondersi di nuovi focolai epidemici. E avremo bisogno di test sierologici per mappare la diffusione del contagio nella popolazione; se si dimostreranno affidabili, potrebbero essere usati per conferire una sorta di “patente di immunità” alle persone protette dagli anticorpi, consentendogli di tornare al lavoro e spostarsi senza restrizioni.

Per gestire uno scenario così complesso servirà anche qualcosa che finora è mancato, e non solo in Italia: un piano d’azione a lungo termine, capace di tenere conto sia delle indicazioni provenienti dall’epidemiologia, sia delle inevitabili ricadute economiche, etiche e sociali. Se finora si sono sentite soprattutto le voci degli esperti scientifici ed economici, ora è importante che il discorso pubblico si arricchisca del contributo che possono offrire storici, filosofi, antropologi, letterati e artisti. Perché la questione non è più solo quanto durerà il lockdown, ma che cosa verrà dopo. E quel che verrà dopo dipende dalle scelte che faremo adesso.

Sul Financial Times lo storico Yuval Noah Harari avverte che, nel valutare le diverse opzioni, dovremmo chiederci non solo come superare le minacce immediate, ma anche in che tipo di mondo vivremo quando la tempesta sarà passata. Secondo Harari, infatti, accelerare i processi storici è nella natura stessa delle crisi: decisioni che in tempo di pace avrebbero richiesto anni di attenta valutazione vengono approvate nell’arco di qualche ora, spesso con effetti permanenti anche dopo che l’emergenza è finita. Hariri aggiunge che la scelta più importante sarà tra la sorveglianza totalitaria e la responsabilizzazione dei cittadini.

Società allo specchio

Dopo l’apparente successo del cosiddetto modello cinese, diversi commentatori si sono chiesti fino a che punto si possa controllare l’epidemia senza rinunciare alle libertà personali e alla privacy. Eppure, secondo Frank Snowden, eminente storico della medicina dell’Università di Yale, il modello cinese in realtà non è neppure un modello: «È stato concepito all’improvviso in grande disperazione: pura improvvisazione dispiegata con una forza enorme e in modo autoritario». In ogni caso nessun Paese democratico potrebbe replicare quel che è stato fatto in Cina. Per questo oggi l’Occidente guarda più all’Italia, dove l’epidemia è in anticipo di una o due settimane rispetto agli Stati Uniti e al resto dell’Europa. Oppure a Paesi come la Svezia, dove finora si è preferito chiedere ai cittadini di rispettare volontariamente il distanziamento sociale senza imporre obblighi.

Se infatti c’è accordo sull’importanza del distanziamento sociale per interrompere la catena del contagio, l’efficacia delle misure per conseguirlo dipende dal contesto geografico e socioculturale in cui trovano applicazione. Quel che funziona in Cina o in Corea del Sud non è detto che sia esportabile in Italia o in Svezia, e viceversa. Mentre la gran parte dei Paesi del sud del mondo non potranno nemmeno pensare di replicare quel che oggi viene sperimentato negli Stati Uniti e in Europa, perché semplicemente non ne hanno i mezzi. Infine, non possiamo ancora sapere quale approccio si rivelerà più efficace a lungo temine perché – nonostante la dilatata percezione del tempo che caratterizza queste settimane – in realtà siamo soltanto al principio di una pandemia di cui conosciamo ben poco: non abbiamo idea di quanto durerà, se si presenterà a ondate successive, se la malattia è destinata a diventare endemica, se il coronavirus muterà, e in che modo.

Di certo la COVID-19 farà parte della nostra vita ancora a lungo, mettendo in discussione molti aspetti della nostra socialità e imponendo scelte difficili che, nel bene e nel male, potrebbero lasciare segni profondi. Come dice Snowden, le epidemie sono come uno specchio: «Ci mostrano chi siamo veramente. Ciò che vediamo nelle epidemie sono i nostri veri impegni etici, le nostre credenze religiose, le relazioni sociali e quelle economiche, cosa progettiamo per il futuro».


Leggi anche: COVID-19: quali farmaci si stanno sperimentando

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).