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Il fallimento di Donald Trump nella gestione della Covid-19

Gli Stati Uniti erano considerati il Paese meglio preparato contro le epidemie, eppure oggi piangono il maggior numero di vittime. Ecco tutte le ragioni di un disastro inaspettato.

Con oltre 100 mila contagi e più di settemila morti, New York vive giorni drammatici. La città simbolo degli Stati Uniti è diventata l’epicentro della pandemia di COVID-19 e le immagini delle decine di bare anonime sepolte in una fossa comune di Hart Island, un isoletta a largo del Bronx, lasciano attoniti. La nazione più ricca e tecnologicamente avanzata del pianeta piange oltre 23 mila morti e si ritrova in balia di un agente infettivo che sembra farsi beffe anche del prestigioso Global Health Security Index, che indicava negli Stati Uniti il Paese meglio preparato al mondo per fronteggiare la minaccia pandemica.

Cos’è andato storto negli Stati Uniti?

Per capire cosa sia andato storto, occorre rifarsi alle ragioni di molti fallimenti nella gestione delle emergenze: la sottovalutazione del rischio e un’eccesiva confidenza nelle proprie capacità di reagire alla minaccia. È quel che è accaduto anche negli Stati Uniti, dove il nuovo coronavirus ha potuto circolare indisturbato nella popolazione per molte settimane. Il New York Times ha ricostruito l’intera catena di eventi che hanno portato al disastro. Secondo questa ricostruzione, per tutto gennaio il presidente Donald Trump avrebbe ripetutamente minimizzato la gravità dell’epidemia, ignorando sia gli avvertimenti ricevuti dai consiglieri scientifici della Casa Bianca, sia i rapporti dell’intelligence che, fin dai primi del mese, avevano previsto l’ingresso del virus negli USA.

Il 18 gennaio il ministro statunitense della salute e dei servizi alla persona, Alex M. Azar II, aveva informato personalmente Trump della potenziale gravità della minaccia. Ma pochi giorni dopo, al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, il presidente aveva rassicurato: «Abbiamo tutto sotto controllo». Aggiungendo poi una frase che, qualche settimana più tardi, avremmo ritrovato su migliaia di striscioni appesi ai balconi degli italiani: «Andrà tutto bene».

Del resto, nonostante alla fine di gennaio in Cina si contassero già 200 vittime, il problema sembrava ancora remoto: prima di allora ben pochi in Occidente avevano mai sentito nominare la città focolaio dell’epidemia, ignorando che Wuhan era in realtà una metropoli di 11 milioni di persone, snodo centrale dell’alta velocità e collegata al resto del mondo da 500 voli internazionali diretti giornalieri.

Una sottovalutazione iniziale

Nelle prime settimane di febbraio anche i mass media statunitensi avevano esortato a non cedere all’allarmismo, invitando gli statunitensi a preoccuparsi piuttosto dell’influenza stagionale. Sul New York Times erano apparsi articoli come “Beware of the pandemic panic” (Attenti al panico pandemico), secondo cui una reazione eccessiva avrebbe potuto fare più danni della stessa pandemia. L’autore dell’articolo, l’opinionista Farhad Manjoo, ha in seguito ammesso l’errore, giustificandolo però come l’impossibilità di prevedere quel che, a suo giudizio, era un cigno nero.

Ma la COVID-19 non era affatto un evento imprevisto o inatteso: le pandemie sono eventi ricorrenti, e dai tempi della SARS, nel 2003, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva messo in guardia dal pericolo. L’ultimo allarme era stato lanciato in settembre, due mesi prima che fosse identificato il nuovo coronavirus: nel rapporto Un mondo a rischio l’OMS e la Banca Mondiale avevano avvertito che il mondo non era pronto a una pandemia che, nello scenario peggiore, avrebbe potuto fare decine di milioni di vittime e mettere in ginocchio l’economia globale.

A febbraio, però, negli Stati Uniti accade qualcos’altro. E questo sì, davvero inimmaginabile. Come ha raccontato nel dettaglio The Atlantic, per un incredibile intreccio di problemi tecnici e intoppi burocratici, i test diagnostici per identificare i contagi sviluppati dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) erano difettosi, mentre quelli prodotti dai laboratori indipendenti sono rimasti impantanati nella burocrazia della Food and Drug Administration (FDA) che non è riuscita ad approvarli in tempo. «Il risultato è stato un mese perduto, in cui il Paese più ricco del mondo – che può vantare alcuni degli scienziati e degli specialisti di malattie infettive più preparati – ha sperperato l’opportunità di contenere la diffusione del virus, lasciando gli americani all’oscuro di una catastrofe incombente per la salute pubblica», ha scritto il New York Times.

Il distanziamento sociale arriva molto tardi

Il 26 febbraio i massimi esperti statunitensi di sanità pubblica non hanno potuto fare altro che raccomandare alla Casa Bianca di dirottare tutti gli sforzi dal contenimento alla mitigazione dell’epidemia, avvertendo il popolo americano che sarebbe stato necessario introdurre misure di distanziamento sociale. Un provvedimento adottato con riluttanza da Trump soltanto il 16 marzo, dopo altre tre settimane in cui il virus si è diffuso in tutto il Paese, facendo salire il numero di casi confermati da 15 a 4.226. Curiosamente, però, a far capitolare Trump non è stato né Azar né Anthony Fauci, il celebre immunologo della task force di esperti della Casa Bianca contro il coronavirus, bensì Deborah Birx, una veterana delle ricerche sull’AIDS, che ha conquistato la fiducia del presidente con la sua pazienza e una serie di grafici e diagrammi che pare abbiano molta presa su Trump.

Come nel più classico disaster movie hollywoodiano, dunque, la catastrofe ha avuto per protagonista un presidente testardo e arrogante che, per salvaguardare gli intessi economici, non dà retta all’allarme lanciato dagli scienziati. Un copione già visto per la crisi climatica, che Trump si ostina a negare persino di fronte all’evidenza, esattamente come per settimane ha negato la gravità dell’epidemia. Del resto, per farsi rieleggere alle elezioni di novembre Trump puntava proprio sui successi economici, ormai vanificati dalla pandemia, tanto che 16 milioni di americani hanno già perso il lavoro. Ora, però, il destino del presidente statunitense appare legato anche alla sua controversa gestione della crisi, che nonostante tutto può ancora contare sull’approvazione del 46% degli americani.

Oggi il braccio di ferro ingaggiato da Trump con la comunità scientifica è invece plasticamente rappresentato dal confronto quotidiano con Anthony Fauci, consigliere scientifico di tutti i presidenti statunitensi da Ronald Regan in avanti. L’immunologo era stato già costretto a smorzare l’eccessivo ottimismo di Trump sulle tempistiche per sviluppare un vaccino e sull’efficacia dell’idrossiclorochina, un farmaco antimalarico oggi sperimentato contro il nuovo coronavirus. Per le minacce ricevute da alcuni gruppi complottasti, Fauci è finito addirittura sotto scorta.

Lo scontro si è arricchito di un nuovo capitolo il 12 aprile, quando un cronista della CNN ha chiesto a Fauci se, prendendo provvedimenti più drastici già a metà febbraio, si sarebbero potute salvare delle vite. «Ovviamente nessuno può negarlo», ha risposto Fauci, aggiungendo però che sarebbe stato complicato prendere una decisione del genere. Su molti mass media, tuttavia, quest’ultima precisazione è andata perduta, forse perché le complicazioni risultano sempre un po’ indigeste, finendo così per dare la sensazione che quella risposta fosse un’accusa diretta a Trump; Fauci ha invece smentito.

Il giorno seguente, in ogni caso, l’irritazione di Trump verso il suo consigliere scientifico – che gli ha spesso rubato la scena, diventando uno dei volti più celebri e amati dagli statunitensi – si è sfogata su Twitter dove il presidente ha evocato il licenziamento di Fauci. Ma dopo qualche ora le polemiche erano già rientrate. Acqua passata, hanno fatto sapere i due protagonisti. O, perlomeno, una tregua. Perché nel Paese che si credeva meglio preparato contro le epidemie, troppe cose sono già andate storte. E adesso la scienza e la politica non possono fare a meno l’una dell’altra.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).